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La battaglia per la verità di Ilaria Cucchi,
dalla solitudine all’abbraccio di Fermo
(VIDEO)

di Andrea Braconi

“Questa è una battaglia che riguarda tutti noi, una battaglia per i diritti umani, per l’intangibilità del corpo, una battaglia che diventa uno strumento di trasformazione democratica e che segna un passo in avanti dal punto di vista delle coscienze”. Così il professor Giuseppe Buondonno ha aperto l’incontro con Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, arrestato a Roma per possesso di sostanze stupefacenti il 15 ottobre 2009 e morto dopo 6 giorni di agonia.

Un appuntamento già programmato lo scorso autunno nell’ambito della Settimana della Costituzione organizzata dal Tavolo della Legalità, ma rinviato a causa delle scosse di terremoto che avevano colpito anche il Fermano. “Tra ottobre e oggi abbiamo cambiato persino il titolo dell’incontro – ha aggiunto Buondonno – perché ci sono stati importanti sviluppi sul fronte giudiziario, con un nuovo processo che potrà far emergere in modo molto chiaro le responsabilità”.

Una vittoria, quella di Ilaria Cucchi, frutto della tenacia ma anche di un coraggio civile che interroga ogni singolo cittadino, come rimarcato anche negli interventi del vice sindaco Francesco Trasatti, della presidente della Provincia Moira Canigola e del presidente dell’Assemblea Legislativa delle Marche Antonio Mastrovincenzo.

LA SOLITUDINE E IL SOSTEGNO

“Diventa sempre più frequente – ha sottolineato la Cucchi – ascoltare parole di vicinanza e di sostegno, che trovo nella gente che incontro. Ma ricordo bene la sensazione di solitudine, da dove siamo partiti. Tutto è molto cambiato, sotto quell’aspetto, nelle persone comuni in questi ultimi 7 anni. Hanno capito che questo fatto non riguarda solo la famiglia Cucchi, ma riguarda tutti.”

LA PRIMA VOLTA

“Siamo in una fase diversa anche da punto di vista processuale, ma la vera svolta paradossalmente c’era già stata 2 anni fa in un’aula di tribunale, con la sentenza di secondo grado che assolveva tutti per insufficienza di prove. Lì, in quell’aula, la giustizia aveva fallito, ma è stato un momento di svolta perché è stato riconosciuto per la prima volta che Stefano era stato picchiato. E io continuavo a dire abbiamo vinto, anche se avevamo perso: finalmente fuori tutti avevano capito cosa era successo e come era morto mio fratello.”

LA FORZA DI UN’IMMAGINE

“Mostrare la foto di mio fratello è stato fondamentale, perché fino a quel momento nessuno poteva capire cosa ci siamo trovati davanti agli occhi. Fabio, il mio avvocato, mi consigliò di far fare le foto e dopo un po’ di giorni le mostrammo in una conferenza stampa. E ricordo perfettamente gli sguardi sconvolti dei giornalisti.”

DA VITTIMA A CARNEFICE

“Il processo è stato volto a far intendere che in fondo Stefano se l’era cercata, che il responsabile di quella morte era il morto stesso. Sono stati quasi 8 anni di depistaggi e di calunnie sistematiche, con un rovesciamento del ruolo di vittima e carnefice.

Non dimenticherò mai la manifestazione delle mille candele a Roma, che poi sono diventate molte di più, tutta quella gente in totale silenzio per manifestarci il proprio sdegno e la propria vicinanza, guardando quella sentenza proiettata sulla facciata del Csm.

Oggi che c’è stata una svolta si è finalmente presa la direzione della verità. È stato faticoso, difficile, soprattutto dal punto di vista emotivo. Certamente non canto vittoria, ci sono segnali che quello che ci aspetta sarà ancora più complicato, ma abbiamo prove talmente schiaccianti che le persone coinvolte non hanno altro strumento che insultare Stefano e infangare la mia famiglia.”

PERCHÈ NON DOBBIAMO VOLTARCI DALL’ALTRA PARTE

“Emotivamente è molto complicato portare avanti queste battaglie. C’è un meccanismo che scatta nell’immaginario collettivo e che tende ad allontanare questi eventi. Ma questo è terribile, ci pone in un vero e proprio isolamento. Da cittadina, prima che da sorella, ci si chiede perché di tanta ostinazione nel nascondere la verità. Quello che è avvenuto dopo l’arresto di Stefano non ha nulla a che vedere con le sue colpe. Siamo in un Paese ipocrita, che tende a voltarsi dall’altra parte. Dopo questa vicenda ho aperto gli occhi e ho capito che la società che avevo immaginato è completamente diversa. Ecco perché sarà fondamentale il lavoro che riusciremo a fare con l’associazione che porta il nome di mio fratello, un lavoro culturale per provare a dare un contributo positivo a questa nostra società.”

DI INDIFFERENZA SI PUÒ MORIRE

“Non dimenticherò mai le urla e il pianto dei miei genitori quando hanno visto Stefano per l’ultima volta, loro che avevano affidato alle istituzioni il proprio figlio. In quei 6 giorni di attesa erano tante le cose che occupavano la mia testa, ero arrabbiata con mio fratello perché mi aveva tradita; poi sono passata alla preoccupazione, mi immaginavo cosa stesse facendo, se fissasse il soffitto e se riuscisse a dormire. In verità non l’ha fatto per i dolori atroci che ha dovuto subire dentro quell’ospedale lager. Era stato tolto da sguardi indiscreti, lasciato morire da solo come un cane, pensando che noi l’avessimo abbandonato. Invece i miei genitori erano sempre lì fuori, a chiedere notizie di Stefano, facevano avanti e dietro con un borsone di abiti per lui perché per 6 giorni ha indossato sempre gli stessi vestiti, nessuno lo ha cambiato, a nessuno importava niente di lui. E mio fratello è morto anche per il pregiudizio: sì, è vero che di indifferenza si può morire. Ecco perché è pericoloso voltarsi dall’altra parte.

Quando l’ho visto morto sul tavolo dell’obitorio in quell’istante il mondo mi è crollato addosso, mi ripetevo è tutta colpa mia. Gli ho detto ‘ti chiedo scusa e farò in modo che chi ti ha ridotto in questa maniera paghi per quello che ti ha fatto’.”

I MEDIA, IL NOSTRO UNICO STRUMENTO

“Non c’è stato tempo per piangere, ho dovuto aggrapparmi a tutta la forza che avevo per battermi e arrivare a sapere la verità. E in questo percorso fondamentale è stato il ruolo dei mezzi d’informazione. Ricordo il giorno del funerale: eravamo al cimitero, il mio telefono squillava di continuo, ad un certo punto mi chiama Fabio e mi dice di rispondere ai giornalisti. Lui sapeva che era fondamentale parlarne, era l’unico strumento che avevamo. Certo, rendere pubblico il nostro dolore lo vivo come una doppia violenza che lo Stato ci fa, è come se ci chiedesse di assumerci il suo compito. Invece, la giustizia dovrebbe arrivare da sola, seguire un suo percorso indipendente. E queste sono situazioni che capitano sempre agli ultimi di questa società.”

QUEL SENSO DI IMPUNITÀ

“Il senso di impunità? La dice lunga il fatto che queste 5 persone, già diventate 7, si siano nascoste dietro la divisa, raccontando bugie e rimanendo sempre nella posizione di sentirsi superiori. E fa male come cittadina andare sui loro profili social e vedere quello che scrivono. Parlo soprattutto del reato di calunnia, gravissimo da parte di chi porta una divisa.

Ma i Carabinieri non sono quelli, sono gli altri, quelli che hanno avuto il coraggio di testimoniare. E capisco benissimo perché hanno aspettato così tanto. Probabilmente ci sono altre persone che sanno e il fatto che non parlino fa rabbrividire. Ma nonostante questi atteggiamenti non riusciranno mai a farmi smettere di credere nelle Forze dell’Ordine. E sono loro – ha concluso Ilaria Cucchi – che dovranno fare un passo indietro, non io.”

Anche dal suo avvocato Fabio Anselmo, che la affianca sin dalle ore successive alla morte di Stefano, sono venuti importanti spunti di riflessione.

LA VERITÀ E IL SISTEMA

“Faccio l’avvocato da trent’anni e fino al caso di Federico Aldrovandi avevo una fiducia cieca nella Magistratura e nel nostro sistema giudiziario. Oggi ogni tanto mi chiedo: rifaresti quello che hai fatto? E la risposta è no, oggi ho paura, mentre nel 2005 sapevo che la verità sarebbe dovuta trionfare. Purtroppo c’è un sistema con il quale occorre sempre fare i conti.”

ILARIA ED UN BISOGNO DISPERATO DI EROI

“Ha fatto tutto da sola, è una mosca bianca, ha affascinato l’opinione pubblica. E la nostra società ha un bisogno disperato di eroi perché non possiede un substrato culturale sano.”

PROCESSI A DOPPIA VELOCITÀ

“Qual è il limite etico? Tutti hanno diritto di essere difesi ma io da 18 anni a questa parte ho smesso, ad esempio, di difendere i medici perché il primo caso mediatico come vittima l’ho vissuto personalmente. E i meccanismi sono sempre quelli, viviamo in un sistema processuale totalmente privatizzato, esattamente come il sistema sanitario: se hai i soldi vivi e ti difendi, se non li hai muori. Stefano Cucchi è l’emblema di tutto questo, con un processo iper garantito per coloro che erano responsabili della sua morte. Ma questo con il giusto processo non ha niente a che fare, dipende da un fattore di diversità e non di uguaglianza che è la capacità economica del singolo. Il sacrificio che queste famiglie sono chiamate a sopportare è totalmente diverso da quello che immaginavano. Ci sono processi a doppia velocità e Stefano è un esempio per tutti, diventando un simbolo della frustrazione del cittadino.”

DAI RIFLETTORI ALLE AULE

“Il processo mediatico è durissimo, ma è necessario l’occhio vigile dell’opinione pubblica. Negli anni ho capito che bisognava accettare la diversità di opinione, ovviamente fino a che non si cade nell’insulto. Con i giornalisti si è creato un rapporto in linea di massima leale e corretto. Senza l’attenzione dei media voi non sapreste nulla di Stefano e non avreste mai potuto percepire l’umanità di Ilaria. I giornalisti ti tolgono dall’isolamento e c’è un grande entusiasmo da parte loro nel voler seguire queste tragedie, queste vicende umane. Poi ci sono le esigenze di redazione, che spesso frustano il loro entusiasmo e la loro sensibilità. Sì, il processo mediatico è un bel tritacarne, è costoso da un punto di vista umano, ma senza di questo nelle aule giudiziarie non ci si arriverebbe neanche. Questi sono processi che hanno un significato politico estremo, che accendono i riflettori sull’uso della violenza regolamentato dalla legge e sull’inviolabilità dei diritti umani del cittadino.”

  

(si ringrazia Andrea Del Zozzo per la concessione delle immagini)

 


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