Si sente spesso parlare delle difficoltà di sfamare il pianeta. Guardando avanti, intorno al 2050, avremo la necessità di soddisfare 2 miliardi di persone in più. Una dieta che ruota intorno alla carne e ai latticini, in ascesa nei paesi in via di sviluppo, avrà un impatto molto più grande sulle risorse mondiali e sarà molto meno sostenibile per l’ambiente rispetto ad una dieta costituita principalmente da vegetali, frutta, cereali integrali e in generale tutte le fonti di carboidrati non raffinati. Diventa cruciale sapere quale dieta sia la migliore, quali cibi sceglieremo di mangiare e quali saranno le conseguenze.
Ne parliamo con il dott. Luca Sacchini, medico veterinario specializzato in ‘Igiene ed Ispezione degli alimenti’.
Diecimila anni fa, gli uomini si procuravano il cibo attraverso la caccia, il raccolto o la pesca. Con la nascita dell’agricoltura, i cacciatori-raccoglitori nomadi divennero stanziali solo nelle foreste dell’Amazzonia, nelle aride praterie dell’Africa, nelle isole più remote del Sud-est Asiatico e nella tundra dell’Artico. Oggi sono rimaste pochissime tribù di cacciatori-raccoglitori: ecco perché gli scienziati stanno intensificando gli sforzi per imparare ciò che possono riguardo il loro antico modo di vivere e alimentarsi prima che scompaiano. Gli studi sugli Tsimani della Bolivia, gli Inuit dell’Artico e gli Hadza della Tanzania hanno confermato che queste popolazioni presentano un’eccezionale salute cardiovascolare senza alte pressioni sanguigne, aterosclerosi o patologie cardiache. Tutto ciò è dovuto al loro stile di vita basato su: diete a basso contenuto di grassi saturi, costante esercizio fisico rappresentato dalla caccia, la raccolta, la pesca e la coltivazione, assenza di vizi come il fumo. Un uomo di 80 anni di una di queste tribù ha le arterie di un cinquantenne dei paesi “civilizzati” e un rischio cardiaco 5 volte più basso del normale.
Il concetto che siamo intrappolati in un corpo dell’età della pietra che vive in un mondo di fast-food ha portato di recente allo sviluppo delle cosiddette diete “paleolitiche”. In cosa consistono esattamente?
Sono diete che basano la loro popolarità sull’idea che gli umani moderni si siano evoluti mangiando ciò che i cacciatori-raccoglitori mangiavano durante il Paleolitico, (periodo che va da 2,6 milioni di anni fa fino alla nascita dell’agricoltura) e che i nostri geni non abbiano avuto abbastanza tempo per adattarsi ai cibi coltivati o derivati dall’allevamento. Dopo aver studiato le diete delle tribù di cacciatori-raccoglitori ancora presenti sulla Terra, alcuni esperti hanno concluso che il 70% di queste società assumono più della metà delle loro calorie da carni magre e pesce ma non da prodotti caseari, cereali o leguminose, cibi introdotti nella nostra dieta dopo l’invenzione dell’agricoltura e delle arti culinarie. I difensori di queste tipologie di diete affermano che se assumiamo i cibi dei nostri antenati eviteremo le afflizioni della civiltà moderna, come le malattie cardiache, le alte pressioni sanguigne, il diabete, il cancro e anche l’acne.
Sembra accattivante, ma è vero che ci siamo evoluti attraverso una dieta a base di carne?
Sia i paleontologi che studiano i fossili dei nostri antenati, sia gli antropologi che documentano le diete delle popolazioni indigene dicono che il quadro è un po’ più complesso. Queste tipologie di diete sono spesso basate su un calderone di preconcetti e idee sbagliate. La carne ha giocato un ruolo chiave nella storia della dieta umana ed è stata cruciale per l’evoluzione del cervello dei nostri antenati intorno a 2 milioni di anni fa. Iniziando a mangiare carni e midolli ricchi di calorie invece che piante (come le scimmie), il nostro diretto antenato, l’Homo erectus riusciva ad avere l’energia extra che serviva ad alimentare un cervello sempre più grande. La digestione di diete ad alta qualità calorica e la riduzione di più ingombranti fibre vegetali permise a quegli umani di avere addomi molto più ridotti, con la conseguenza che l’energia liberata poteva essere utilizzata dall’ormai più “avido” cervello. Il cervello umano, infatti, richiede il 20% dell’energia tratta dagli alimenti durante il riposo mentre quello di una scimmia solo l’8%. Ciò significa che dai tempi dell’Homo erectus il corpo umano è rimasto dipendente da cibi ad alto contenuto energetico, soprattutto carne. Due milioni di anni dopo, la svolta fu rappresentata dall’agricoltura. La coltivazione del sorgo, dell’orzo, del grano, del mais e del riso creò un’enorme riserva di cibo, permettendo alle mogli degli agricoltori di partorire figli in rapida successione: uno ogni 2,5 anni (contro uno ogni 3,5 anni per le mogli dei cacciatori-raccoglitori). Seguì un’enorme esplosione demografica e, in pochissimo tempo, i coltivatori superarono di gran lunga i foraggiatori.
L’agricoltura, quindi, ha rappresentato o no un passo avanti per la salute umana?
Nei decenni scorsi gli antropologi hanno fatto fatica a rispondere a questa domanda. Nell’abbandonare il nostro retaggio di cacciatori-raccoglitori diventando coltivatori ed allevatori abbiamo solo rinunciato ad una dieta più sana ed un corpo più forte per avere la certezza del nutrimento? Alcuni studiosi ci descrivono l’alba dell’agricoltura come un quadro piuttosto triste. Nel momento in cui i primi agricoltori svilupparono la dipendenza dalle coltivazioni, le loro diete divennero nutrizionalmente meno variegate di quelle dei cacciatori-raccoglitori. Quando essi cominciarono ad addomesticare gli animali, quei bovini, ovini e caprini divennero fonte di latte e carne ma anche di parassiti e malattie infettive. Gli agricoltori soffrivano inoltre spesso di carenze di ferro e ritardi nello sviluppo ed erano di più bassa statura rispetto agli altri. Quindi, nonostante l’evoluzione, gli agricoltori avevano uno stile di vita e una dieta chiaramente non così salubri come quelli dei cacciatori-raccoglitori. La vera dieta “Paleolitica”, comunque, non era solo carne e midollo poiché, nei periodi di magra, il consumo della carne si riduceva ad un pugno a settimana. Nuovi studi informano che non fu solo la dipendenza dalla carne ad alimentare lo sviluppo del cervello. Osservazioni sulle tribù ancora esistenti ci confermano, infatti, che sono pochi i successi dei cacciatori-raccoglitori. Gli Hazda della Tanzania e i Kung, gruppo più consistente dei Boscimani settentrionali, per esempio, la metà del tempo in cui si avventurano con arco e frecce falliscono nell’obiettivo di tornare con della carne. Ciò evidenzia che era anche più dura per i nostri antenati che non avevano queste armi. Nessuna di queste popolazioni mangia carne così spesso, eccetto nell’Artico, dove gli Inuit e altri gruppi, tradizionalmente, traggono fino al 99% delle loro calorie dalle foche, i narvali e i pesci.
In che modo quindi i cacciatori-raccoglitori ottengono energie quando non c’è carne ?
È emerso che l’uomo-cacciatore è supportato dalla donna-foraggiatrice che, con un po’ d’aiuto dei bambini, garantisce le calorie necessarie durante i periodi difficili. Quando la carne, la frutta o il miele scarseggiano, i foraggiatori vivono di cibi di ripiego: gli Hazda ottengono quasi il 70% delle loro calorie dalle piante, i Kung fanno affidamento sui tuberi e sulle noci del mongongo, un albero molto comune dalle loro parti, gli Aka e i pigmei Baka del bacino del fiume Congo sulle patate dolci, gli Tsimani e gli indiani Yanomami dell’Amazzonia sui plantani e la manioca, gli aborigeni Australiani sull’erba di noce e la castagna d’acqua. Si è molto parlato di come sia stata la carne a renderci gli umani che siamo oggi ma ciò è solo la metà della storia: queste popolazioni bramano la carne, in realtà vivono di vegetali e frutta. Ma c’è di più: sono stati ritrovati granuli di amido di piante su denti fossili e attrezzi di pietra, cosa che suggerisce che gli esseri umani possono aver ingerito cereali e tuberi per almeno 100.000 anni (abbastanza a lungo per aver sviluppato la capacità di tollerarli). La nozione che abbiamo smesso di evolverci nel Paleolitico non è vera: i nostri denti, mandibole e ossa facciali si sono rimpicciolite ed il nostro DNA è cambiato dall’invenzione dell’agricoltura. Una prova lampante di questa continua evoluzione è la tolleranza al lattosio. Tutti gli esseri umani digeriscono il latte materno durante l’infanzia. Fino a quando non esisteva il bestiame addomesticato, 10.000 anni fa, i piccoli svezzati non avevano certo bisogno di digerire latte: di conseguenza smisero di produrre l’enzima che scinde il lattosio in zuccheri semplici. Un parallelismo può essere fatto con la doccia esofagea della specie bovina, struttura che nel giovane convoglia il latte nello stomaco ghiandolare impedendogli di ristagnare nei prestomaci per poi scomparire nell’età adulta. Dopo la domesticazione del bestiame, divenne estremamente vantaggioso poter digerire latte e la tolleranza al lattosio si evolse in modo indipendente tra gli allevatori dell’Europa, del Medio Oriente e dell’Africa. I gruppi non dipendenti dal bestiame come i Cinesi e i Tailandesi, gli Indiani Pima del Sud-ovest dell’America e i Bantu dell’Africa occidentale rimangono ancora oggi fortemente intolleranti al lattosio. Gli esseri umani variano anche nell’abilità di estrarre, con la masticazione, zuccheri da cibi ricchi di amido a seconda di quante copie di un certo gene hanno ereditato. Popolazioni che tradizionalmente, nella loro storia genetica, hanno mangiato cibi ricchi di amido, come i già citati Hazda, hanno più copie di questo gene rispetto ad esempio agli Jacuti, mangiatori di carne della Siberia, e la loro saliva aiuta a scindere gli amidi prima che il cibo raggiunga lo stomaco.
Pensando al detto “Sei quello che mangi”, non sarebbe allora più giusto dire: “Sei quello che i tuoi antenati hanno mangiato”?
C’è un’enorme variabilità riguardo ai cibi dai quali l’uomo trae sostentamento e ciò è dipendente dalla sua eredità genetica. Molti studi evidenziano come quei gruppi di indigeni che hanno abbandonato il loro stile di vita attivo e la loro dieta tradizionale per perseguire quelli di stampo più occidentale abbiano avuto diversi problemi. Il diabete, per esempio, era virtualmente sconosciuto ai Maya dell’America Centrale fino agli anni ’50: dopo che questi si orientarono verso una dieta occidentale ricca di zuccheri, i casi di diabete arrivarono alle stelle. I nomadi della Siberia come gli Evenchi, allevatori di renne, e i già citati Jacuti avevano diete ricche di carne, eppure non manifestavano quasi malattie cardiache: dopo la caduta dell’Unione Sovietica molti si stabilirono nei villaggi e il consumo di carni commerciali fece impennare in maniera esponenziale queste patologie. Oggi, metà degli Jacuti che vivono nei villaggi sono sovrappeso e quasi un terzo hanno ipertensione. Anche gli Tsimani che mangiano i cibi del supermercato sono più predisposti al diabete di quelli tra loro che si procurano il cibo cacciando e raccogliendo. Per chi ha antenati che si sono adattati a diete basate sui vegetali, sarebbe meglio non mangiare così tanta carne come gli Jacuti, soprattutto con uno stile di vita sedentario. Studi recenti confermano vecchie scoperte: anche se gli esseri umani hanno consumato carni rosse per due milioni di anni, l’eccesso incrementa aterosclerosi e neoplasie in molte popolazioni, e i colpevoli non sono solo i grassi saturi o il colesterolo. La nostra flora batterica intestinale assimila dalle carni rosse una sostanza chiamata L-carnitina che, in studi di laboratorio, accentua la formazione di placche ateromasiche. Inoltre, si è scoperto che il sistema immunitario umano attacca l’Acido n-glicolilneuraminico di queste carni causando una condizione infiammatoria che è di lieve entità nel giovane ma che può portare allo sviluppo di tumori in età più avanzata. Bisogna dire che, nonostante chi difende queste diete “Paleolitiche” aggiunga sempre di stare lontani da cibi trasformati, l’eccessiva fissazione sulla carne non replica assolutamente la diversità di cibi che i nostri antenati mangiavano né prende in considerazione gli stili di vita attivi che questi praticavano e che li proteggevano dalle malattie cardiache e dal diabete.
Qual è allora la dieta umana ideale?
Non esiste una dieta umana ideale come non esisteva per i nostri antenati: la caratteristica principale dell’essere umano non è l’appetito per la carne ma l’abilità di adattarsi a molti ambienti e di combinare cibi differenti per ottenere forme di dieta salutari. Sfortunatamente spesso quella occidentale non sembra essere tra queste. L’ultimo indizio sul perché la nostra dieta moderna potrebbe farci male arriva da alcuni primatologi che, contestando quanto detto prima, affermano che la più grande rivoluzione nella nutrizione avvenne non quando iniziammo a mangiare carne ma quando imparammo a cucinare. I nostri antenati che cominciarono a cucinare tra i due milioni e i 400.000 anni fa garantirono la sopravvivenza a molti più figli: macinare e riscaldare il cibo lo pre-digerisce, permettendo al nostro apparato digerente di spendere meno energia per scindere le varie sostanze nutritive, assorbendole più facilmente che nell’ingestione di cibo crudo e quindi provvedendo a più “carburante” per il nostro cervello. I cibi cotti diedero agli esseri umani non solo l’energia necessaria ad un cervello più grande ma anche più calorie che gli permisero di aumentare di peso: nel contesto moderno l’altro lato della medaglia di questa ipotesi è che possiamo essere diventati vittime del nostro stesso successo. Siamo diventati così bravi a trasformare i cibi che per la prima volta nell’evoluzione umana molti assumono più calorie di quante ne brucino in un giorno. È proprio questa svolta verso il consumo di cibi trasformati (sempre più attuale) che contribuisce alla crescente epidemia di obesità e malattie correlate. Se nella maggior parte del mondo si mangiassero più frutti e vegetali locali, poca carne soprattutto bianca, pesce e cereali integrali (come nella famosa dieta Mediterranea) e si facesse movimento almeno un’ora al giorno, allora avremmo buone notizie per la nostra salute e per quella del pianeta.
Il dott. Luca Sacchini, medico veterinario specializzato in ‘Igiene ed Ispezione degli alimenti’ riceve per appuntamento al n. 328 8487029
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