di Andrea Braconi
“Sai quando mi sento celiaco? Quando vado ai compleanni e le mamme che mi ricevono fanno: oh, non mi ricordavo del fatto che eri celiaco, quindi non ho niente da farti mangiare”. Romina Giommarini, dall’aprile 2018 presidente regionale dell’Associazione Italiana Celiachia, è rimasta colpita dal racconto di un bambino celiaco, che porta come esempio per far comprendere come l’informazione e la conoscenza di questa malattia siano sempre più elementi fondamentali, in ogni aspetto della vita di una comunità.
“La nostra è un’associazione di pazienti, che non scegli ma nella quale ti ritrovi quando in mano hai una diagnosi di celiachia – spiega a Cronache Fermane la Giommarini -. Il mio obiettivo da presidente è quello di poter rendere la celiachia una compagna di viaggio e non un fardello da portare sulle spalle. La celiachia attualmente non ha una cura, l’unica cosa che si può fare è non ingerire cibi contenenti glutine o comunque contaminati da glutine.”
Pane, pizza e farina di grano sono gli elementi di maggiore impatto, ma c’è anche altro.
“Il glutine è anche un colorante ed un addensante, quindi anche le semplici caramelle possono contenerlo, oltre al fatto che i cibi possono essere contaminati, ad esempio da una cuoca che mentre prepara il pranzo mescola il sugo con lo stesso cucchiaio dell’acqua della pasta.”
Singolare questa visione della celiachia come compagna di viaggio, quando invece nell’immaginario collettivo è vista come una sorta di nemico contro il quale combattere.
“La celiachia è una malattia a tutti gli effetti, anche se nel 2019 viene ancora erroneamente paragonata ad uno stile di vita. A me è stata diagnosticata a 32 anni e posso assicurarti che non è una scelta. Anzi, ero talmente arrabbiata che ho deciso di entrare in associazione per poter fare qualcosa di utile.”
Che tipo di attività svolgete per informare il cittadino?
“Per fare un esempio recente, abbiamo partecipato ad una manifestazione come Tipicità perché siamo convinti che se non si conosce la malattia spaventa. Invece, vogliamo dimostrare che se la conosci è semplice da gestire: c’è ancora chi ne viene in contatto e mangia cose comuni, quando invece ha una bomba ad orologeria dentro che può scoppiare da un momento all’altro. Quindi, siamo nelle piazze per far conoscere tutto questo. Inoltre, ci affianchiamo ai medici prendendoci carico delle persone all’inizio della diagnosi per far capire loro a cosa vanno incontro e come poter superare tutte le difficoltà. La nostra è un’associazione di volontariato, siamo intorno ai 1.200 associati a livello regionale e il nostro scopo è proprio quello di farci carico del paziente e dei suoi familiari.”
Chi ne fa parte?
“Per gran parte mamme, papà, mogli o mariti di persone celiache, soprattutto bambini. Abbiamo un comitato scientifico, composto da medici, che stanno nell’associazione per monitorare e studiare tutto quello che di sanitario e scientifico c’è intorno alla celiachia. Un comitato composto da gastroenterologi territoriali (qui a Fermo abbiamo Macarri), con l’eccellenza del Salesi con il dottor Catassi e il suo staff. Ci sono progetti che stiamo avviando con loro ed altri, che andremo a sviluppare nelle varie Asur territoriali.”
Lunedì la Regione Marche ha approvato il Percorso diagnostico terapeutico assistenziale, una decisione che come associazione auspicavate in maniera convinta.
“Sì, si tratta di un passo avanti per certi versi storico, che ci permetterà di avere un protocollo condiviso.”
In che rapporti siete con il Centro per i Disturbi da Comportamento Alimentare dell’Area Vasta 4 di Fermo?
“Abbiamo preso dei contatti e dovremo andare a costruire un progetto quanto prima. É importante fare sinergia, a qualsiasi livello, specie con una realtà così essenziale per pazienti e famiglie.”
Torniamo alla celiachia: a numeri come siamo messi?
“Rispettiamo i livelli nazionali, con una diagnosi che riguarda una persona su tre, ma siamo ancora alla punta dell’iceberg. E la celiachia è prevalentemente donna. Il problema grande è che non c’è una vera formazione medica, ma con il Pdta regionale partiremo con una formazione a tappeto. Perché mettere a dieta una persona e poi fare la diagnosi è come andare a fare le analisi ad un diabetico dopo aver fatto l’insulina. Invece la dieta è la mia cura. Purtroppo questo ancora accade: prima si fanno mettere a dieta, poi si fanno i controlli. Ma è totalmente sbagliato.”
Sintetizzando il vostro messaggio: di celiachia si deve parlare.
“Bisogna parlarne per far capire che è un aspetto comune e che può toccare tutti. In passato ognuno si richiudeva in casa con il proprio disagio ed il proprio problema. Anch’io all’inizio ho vissuto questa fase, poi in me è scattato altro. Ho pensato che fosse una problematica da affrontare in maniera diretta, senza nascondersi”.
In quest’ottica, molto importante è la formazione del bambino.
“Il bambino deve essere informato, ma questo deve essere fatto anche nei confronti degli altri bambini. Perché non è una vergogna essere celiaco. Ho le mie cose da mangiare, grazie perché mi offri la tua merenda ma non posso. Per questo è importante fare informazione, piuttosto che creare una differenza.”
A livello progettuale, qual è il vostro fiore all’occhiello?
“Sicuramente il progetto nazionale AFC, Alimentazione Fuori Casa, con il quale andiamo a fare formazione ai locali e ai ristoranti. Quando ho iniziato per mangiare una pizza senza glutine dovevo andare ad Ascoli Piceno, per mangiare un gelato a Macerata. Da lì ho capito che non potevo non rimboccarmi le maniche. Così ho cercato l’associazione, fondata negli anni ’80 nelle Marche (mentre quella nazionale festeggia 40 anni, ndr) e mi sono impegnata. In questo ambito la formazione la facciamo sia a chi cucina, sia a chi serve, situazioni entrambe molto delicate e fondamentali per veicolare le giuste informazioni avendo un approccio realmente efficace.”
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