di Francesca Marsili
«Wuhan è isolata dal 23 gennaio, da quel momento non abbiamo più potuto prendere mezzi pubblici e lasciare la città. Usciamo di casa armati di mascherina e disinfettante solo per fare la spesa. L’ambasciata italiana ci ha contattati per proporci una sorta di evacuazione via terra in una città a 350 km di distanza, Changsha, a condizione di restare in osservazione per 14 giorni in un ospedale cinese. Ma la maggior parte di noi ha rifiutato perché ci sentiamo più sicuri nelle nostre case pulite e disinfettate sia perché la situazione è in continua evoluzione sia perché c’è scarsa chiarezza sulle successive mosse». E’ il racconto fatto a Cronache Maceratesi da Alessia Bartolini, 25enne di Monte Urano, una dei cinquanta italiani attualmente presenti e bloccati a Wuhan, città-focolaio del Coronavirus. E non è neanche l’unica marchigiana che sta vivendo questi giorni terribili in Cina, a due ore di volo da Wuhan c’è anche una delegazione G.B. Service di Castelraimondo.
Bartolini, laureata in lingue e cultura cinese, è in Cina da inizio novembre per studiare in una scuola privata. Racconta di una metropoli semi-deserta e di drastiche misure di sicurezza, un fitto cordone sanitario per arginare la propagazione del virus, una gigantesca quarantena cittadina imposta dal governo. «Stiamo bene. Dopo un primo momento di panico, adesso mi sento un pochino più tranquilla ed abbiamo ancora la possibilità di fare scorte di cibo racconta la giovane marchigiana – L’unica preoccupazione ora proviene dalla totale mancanza di mascherine, non se ne trovano più. La Farnesina è al lavoro ma qui a decidere è Pechino». E questo mentre l’Organizzazione mondiale della sanità ha innalzato il livello di allerta per il virus 2019-nCoV da “moderato “ a “elevato” e le cifre del contagio in Cina sono da capogiro. «Il capodanno cinese – ammette la ragazza con un pizzico d’ironia – l’ho festeggiato chiusa in casa con la mia coinquilina ed una bottiglia di vino».
Mirko Pelati, 33enne di Matelica, si trova a due ore di volo dall’epicentro della malattia, precisamente a Jiangmen, città metropolitana nella Cina meridionale. E’ uno dei dipendente dell’azienda di Castelraimondo che si occupa di robotica e automazioni industriali. Con lui, oltre il titolare, altri 4 colleghi. «Qui in albergo ogni qualvolta si rientra – spiega Pelati – il personale misura la temperatura corporea con uno scanner che appoggiano alla tempia e se dovesse superare 37,3, è vietato entrare. Ovviamente tutti indossiamo mascherine che risultano introvabili ovunque». Il 33enne non nasconde qualche timore, aggiungendo che oltre il lavoro si resta tappati in camera d’albergo. «Io sono arrivato il 20 gennaio, qualche giorno prima che esplodesse l’epidemia, e non ho visto misure diverse dal solito. Mentre i miei colleghi, arrivati il 25, dopo essere atterrati all’aeroporto, hanno dovuto compilare un modulo sullo stato di salute oltre alla mappatura degli spostamenti». E’ preoccupato Pelati, soprattutto perché teme che un’ulteriore propagazione del Coronavirus possa compromettere il loro ritorno in Italia e conclude. «Vengo in Cina da molti anni, sempre in concomitanza del Capodanno lunare – conclude – ma non ho mai visto la città deserta durante quella che è per i cinesi, la festa più importante dell’anno».
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