di Andrea Braconi
Ha il volto provato, Francesca, dopo quasi due mesi vissuti dentro ad un incubo. Nel raccontare via WhatsApp il dramma del suo compagno Stefano, risultato positivo al Covid-19 e per 38 giorni ricoverato al “Murri” di Fermo tra Terapia intensiva e Malattie infettive, ricostruisce ogni momento, ogni dettaglio, ogni sofferenza che è stata costretta a lasciarsi alle spalle per dedicarsi soltanto a lui. Senza vederlo, rimanendo chiusa nella sua casa di Porto Sant’Elpidio e ricevendo aggiornamenti costanti dai primari dei vari reparti e dal personale sanitario. Ad ogni squillo del telefono un sussulto e la paura di ascoltare quello che la sua mente ha continuato a rifiutare. Per notti intere.
Stefano, però, persona sì mite ma con un carattere determinato, ha tirato fuori tutta la propria forza. Ed è tornato da lei. Debilitato, confuso, incapace di riconoscere il mondo rovesciato al quale tutti noi ci siamo abituati dallo scorso 11 marzo, nostro malgrado. Ma desideroso di mettere la parola fine ad una storia inimmaginabile.
Oggi si svegliano insieme e fanno colazione, provano a dare un senso a queste giornate di reclusione forzata. Ma soprattutto Francesca sta ripercorrendo tutto il proprio vissuto.
E se da un lato vuole gridare il suo grazie alla dottoressa Cola, al dottor Amadio, ad ogni infermiere, alla direzione sanitaria dell’Area Vasta 4 (“Hanno fatto un lavoro impeccabile nel ricostruire i movimenti di Stefano e nel comunicarli a chi poteva essere entrato in contatto con lui, esattamente ciò che va fatto nel rispetto della privacy dei contagiati e delle loro famiglie”) al sindaco Franchellucci (“Mi è stato sempre vicino, consigliandomi e dandomi speranza”), ad ogni amico che ha rispettato il suo dolore, l’altro lato della medaglia, invece, è colmo di amarezza. Un’enorme amarezza. Perché tutto si sarebbe aspettato, meno che di ritrovarsi dentro una vera e propria caccia all’untore.
Nell’istante in cui i sanitari del 118 sono accorsi a casa – eravamo al 4 marzo – Francesca è entrata suo malgrado in un vortice a causa di una foto scattata e subito rimbalzata online. Senza eliminare elementi riconducibili a lei, vettura compresa. Soltanto quella corsa ad una visibilità che, da nord a sud del Paese, ha purtroppo caratterizzato l’utilizzo dei social in questa terribile emergenza. Non bastasse, le sue foto e quelle di Stefano sono circolate in alcune chat di gruppi WhatsApp, per dare prova che sì, “gli untori sono proprio loro”.
E così, per sfogarsi dopo tanto silenzio (soltanto quando Stefano è stato dimesso si è legittimamente permessa di darne notizia, con un post sulla sua bacheca Facebook), si è messa a scrivere. Mescolando dolore e rabbia, felicità e consapevolezza. Frase dopo frase.
“È arrivato finalmente il momento in cui ho il giusto spirito e la giusta lucidità per esprimere brevemente ciò che mi tengo dentro esattamente da 45 giorni, cioè da quell’infausto 4 marzo (che sembra ormai lontanissimo, ma è trascorso soltanto poco più di un mese) in cui il mio compagno è stato accompagnato dagli operatori sanitari (nascosti nello scafandro) all’ospedale di Fermo per essere sottoposto al tampone per Covid-19. Tampone che il giorno successivo, 5 marzo, è risultato purtroppo positivo ed è stato il primo caso a Porto Sant’Elpidio. Un triste primato! Quel 4 marzo, mentre per noi iniziava un dramma indicibile (fortunatamente finito bene), qualcuno in modo del tutto naturale, superficiale, in vena di gossip da quattro soldi ed in cerca dello scoop, pubblicava disinvoltamente una foto infelice scattata (…) che per puro passatempo, non hanno potuto fare a meno di immortalare quello che per noi, ha rappresentato un momento veramente buio, di paura, di angoscia, di ansia, l’inizio di un vero e proprio dramma. Chi non è stato toccato direttamente da questa tragedia sicuramente trova difficile comprendere la disperazione che ti pervade in quei momenti ed evidentemente non ha trovato nulla di meglio da fare che inquadrare in modo chiaro e nitido l’ingresso della nostra casa, senza risparmiare nemmeno la mia macchina, ben visibile e riconoscibile, parcheggiata proprio lì davanti. Il tutto, nel suo insieme, era molto ben riconoscibile, visto che la zona in cui abitiamo è abbastanza isolata e in quell’edificio ci abitiamo solo noi.
Ebbene, non avrei mai nemmeno lontanamente immaginato che qualcuno potesse arrivare a tanto: scattare una foto in un momento così tanto triste e concitato (…)” Nella lettera si parla anche di uno scatenarsi “in pochi minuti un delirio parallelo nelle nostre vite, già gravate dalla malattia e dall’attesa angosciosa, dalla profonda preoccupazione, dalla paura che si alterna alla disperazione. Stati d’animo che ovviamente alcuni hanno dimostrato di non conoscere e di non riuscire neanche a poter immaginare! Per colpa di quella maledetta ed infelice foto, si è innescata una vera e propria “caccia al nome” degna del peggiore provincialismo nostrano, di cui – direi a lor signori – vi siete fatti portavoce! E tutto questo per cosa? Per essere i primi a dare la notizia di un caso sospetto a Porto Sant’Elpidio? E già, sospetto per forza, visto che i risultati del test sono stati noti il giorno successivo. Se questo era l’obiettivo, allora lo avete raggiunto, avete ottenuto lo scoop, lo avete fatto circolare sui vostri social, senza tralasciare ovviamente che si trattava del Quartiere Corva di Porto Sant’Elpidio. Complimenti!!
Nel giro di qualche minuto, mentre ero in costante contatto con il mio compagno appena ricoverato e con i dottori che lo hanno accolto, iniziavo a ricevere messaggi e telefonate di amici e parenti che, avendo (…) riconosciuto dalla foto la nostra casa e la mia macchina, preoccupati, chiedevano notizie. Notizie che neanche io sapevo dare loro. Non dimenticherò mai quel pomeriggio, reso infernale anche (e forse soprattutto) a causa del comportamento che reputo sconsiderato di taluni. (…) Ancor prima che si conoscesse il risultato del tampone – è iniziato a circolare, anche tra i vari gruppi WhatsApp, il nome e la foto dell’ ‘untore’ n. 1, da solo ed in mia compagnia, cosa questa altrettanto penosa! A tal proposito, ci tengo a sottolineare come, contrariamente a quanto falsamente riferito da alcune persone nei messaggi sui gruppi Whatsapp, il mio compagno non sia mai stato a Milano negli ultimi mesi e non ho davvero parole per definire gli autori di tali affermazioni, che sopra ad ogni altra cosa, dovrebbero soltanto vergognarsi.
Quello che ci è stato riservato da queste persone è un trattamento disumano, che non ha giustificazioni, né spiegazioni.
Al contrario, alcuni amici e giornalisti locali, anche loro dopo aver visto quella foto sciagurata, mi hanno telefonato, usando toni professionali ed umani; hanno rispettato la mia/la nostra privacy e non hanno insistito quando non ho voluto commentare, né confermare e per questo sono loro grata, per aver compreso la difficile situazione che stavamo vivendo. Grazie!
Bene, fortunatamente ora il mio compagno è guarito, dopo 38 giorni di ospedale, di cui molti trascorsi in terapia intensiva, intubato e sedato, in condizioni molto gravi. Fortunatamente ce l’ha fatta, e stiamo piano piano ricominciando a vivere dopo questa esperienza traumatica. Ma di una cosa sono certa, avreste fatto meglio e più bella figura a pubblicare questa notizia, anziché fare sciacallaggio mediatico quando ancora non si avevano certezze, oltre all’immenso dolore che stavamo attraversando! Sareste stati di gran lunga più dignitosi. Invece, nei momenti di disagio, ciascuno si rivela per quello che è e tanti sarebbero gli aggettivi offensivi e sprezzanti che mi vengono in mente che non oso neppure pronunciare, perché – dovete sapere – che con il dolore altrui non si scherza, non si fa scoop, non si fa gossip. Non si fa. Non si fa.
Ho passato 38 lunghissimi ed interminabili giorni con l’unico pensiero del mio compagno in ospedale, con il terrore di rispondere alle telefonate dei dottori per quello che mi avrebbero potuto dire, con la paura di essere anche io stata contagiata e con la responsabilità di suo padre anziano, che abita nell’appartamento di sopra, e che avrebbe potuto ammalarsi; insomma, con un incubo che chiaramente taluni nemmeno possono immaginare. Chi è stato capace di scattare quelle foto (…) come chi ha postato sui gruppi WhatsApp le nostre foto, non può neanche lontanamente immaginare il dolore che si prova, né la devastazione interiore che si vive ed il danno morale e psicologico che hanno fatto. Con il passare di giorni, dopo quel “lontano” ma “indelebile” 4 marzo, il pensiero di voi si è piano piano sfumato, a conti fatti, resta il triste ricordo del dolore che ci avete procurato, quello non passerà mai! Per giorni, avendo da pensare a cose molto più serie, ho dovuto – per forza di cose – ignorare quello che avete fatto, ho dovuto ignorare le persone che hanno fatto circolare le nostre foto come se fossimo degli untori. Ma oggi non posso non esprimere il mio veemente biasimo nei vostri confronti, rendendo pubblico un comportamento che (…) calpesta persino la dignità umana.
Vorrei chiudere, rivolgendo a tutti voi che non avete rispettato il nostro dolore, una sola parola: vergogna!”
La sua lettera si chiude con un inequivocabile “Saluti (non cordiali)”. Per porre una distanza netta tra chi del suo dramma ha avuto riguardo e chi, al contrario, si è conquistato quei famigerati “15 minuti di celebrità” accendendo i riflettori sul suo dramma e quello, ancora più devastante, di Stefano. Differenze sostanziali, in una società che anche da queste storture – e dalla fermezza di una persona come Francesca – deve provare a ripartire.
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