di Andrea Braconi
Questa è una storia come tante avvenute in Italia nell’ultimo anno. La storia di una cosiddetta residenza sanitaria assistenziale, dove diversi anziani hanno perso la vita dopo essersi contagiati. Come loro, pur evitando conseguenze peggiori, il virus lo hanno contratto anche alcuni operatori, figure che qualcuno, troppo spesso, si diletta a dipingere strumentalmente come carnefici.
E il caos mediatico vede l’anonimato come conseguenza di disposizioni interne che limitano, se non addirittura azzerano, i contatti con la stampa. Si passa solo attraverso comunicati ufficiali, stop a sfoghi in libera uscita. Ma più che di denunciare errori, c’è voglia di liberarsi di un peso, di gridare che loro ce l’hanno messa tutta per proteggere nonni, genitori, zii o semplici amici di chi rimaneva fuori da quelle mura.
Loro che hanno avuto “il Covid dentro”, che hanno vissuto “un mix di paura e disorientamento”, trovandosi completamente spiazzati in occasione della prima ondata. “Nessuno di noi sapeva cosa fare e come farlo – ci racconta un direttore di una struttura marchigiana -. Le indicazioni arrivavano giorno dopo giorno, sempre diverse. È stato un susseguirsi di situazioni, un adattamento continuo su tutti i fronti, dalla gestione del personale a quella degli ospiti”.
Sul finire dello scorso inverno le prime quarantene, con conseguente crollo del numero degli operatori disponibili e gli inevitabili buchi nei turni. “Cercare il personale era un priorità, ma in tanti avevano paura appena venivano a conoscenza dei fatti. E c’era anche da rassicurare il personale interno. In quei giorni abbiamo perso tutti i punti di riferimento”.
Per non parlare dei dispositivi, che inizialmente non c’erano e che poi arrivavano centellinati, in una spasmodica ricerca fornitore per fornitore, donatore per donatore. “Nessuno sapeva e poteva prevedere, ma c’è rabbia perché dopo quanto accaduto in Cina occorreva fare più prevenzione. Sono sicuro che se fossimo partiti con più certezze, non sarebbe successo quello che è successo”.
Il tempo, oltre a mascherine, guanti e tamponi, ha portato una maggiore attenzione. Ed un rapporto recuperato con le famiglie degli ospiti. “Appena scoppiati i primi casi, li abbiamo tenuti aggiornati ed informati via smartphone, ma sembrava che noi volessimo nascondere le cose, non si fidavano più. Oggi invece abbiamo ricostruito questo rapporto, cercando di essere più presenti. A casi azzerati e con la fine delle restrizioni sono state riaperte le visite nel modo più sicuro possibile, cioè all’aperto. In seguito i vari Dpcm hanno portato ad una nuova chiusura degli accessi, ma almeno sappiamo di aver costruito qualcosa di importante insieme a loro”.
E come si tiene insieme tutto questo? Quali corde vanno strette per non precipitare? “Non saprei spiegarlo, forse ti sopraggiunge un qualcosa dentro che ti spinge a dire ‘lo devo fare, ci devo riuscire’. Serve tanto impegno, non bisogna darsi per vinti”.
Nonostante la paura, uno dei punti di forza è stato proprio il personale. “In qualche modo sono state rassicurate le persone rimaste, semplicemente straordinarie facendo notti su notti, doppi turni. Insomma, hanno dato cuore e anima”.
Ma oggi che la situazione sembra essere sotto controllo, servirebbe ancora più determinazione nelle scelte. E non soltanto per quello che concerne strutture di questa tipologia. “Dobbiamo essere decisi, non si può più ondeggiare”. Altrimenti, quel nastro rischia di riavvolgersi. Travolgendo tutto. Di nuovo.
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