Da cuore pulsante del servizio di allerta alla pensione, il dottor Postacchini ripercorre le tappe di una carriera dedicata al soccorso

FERMO - Dal terremoto del 24 agosto 2016 alla pandemia da Covid-19, passando per il coordinamento del piano di emergenza del “Jova Beach Party”. A poco più di un mese dal pensionamento, l'ex direttore della centrale operativa del 118 "Piceno Soccorso" sfoglia l'album dei ricordi gli ultimi anni della sua vita lavorativa

 

di Leonardo Nevischi

Il 2021 è stato di certo un anno indimenticabile per tutti, ma soprattutto per lui, perché non ha segnato solo la conclusione di un anno solare, ma di un intero percorso di vita lavorativa. Stiamo parlando del dottor Flavio Paride Postacchini, dal 1 gennaio scorso, ormai ex direttore della centrale operativa del 118 “Piceno Soccorso” che risponde alle emergenze del Fermano e del Piceno.

Era il primo dicembre del 2013 quando fu nominato per la prima volta responsabile del sistema di emergenza sanitaria territoriale e da allora l’album dei ricordi si è fatto sempre più ricco. Dal terremoto del 24 agosto 2016 alla pandemia da Covid-19, passando per il coordinamento del piano di emergenza del “Jova Beach Party”, il concerto-evento di Lorenzo Jovanotti che ha richiamato in città oltre 30 mila persone: per ben 8 anni, il dottor Postacchini ha rappresentato il cuore pulsante del servizio di allerta delle province di Ascoli e Fermo.

Non dev’essere stato facile chiudere 40 anni di carriera, soprattutto dopo averne dedicati 38 alla stessa comunità. In precedenza, infatti, dopo essersi specializzato in chirurgia generale, Postacchini ha ricoperto l’incarico di supplente per il servizio di guardia medica e guardia turistica nei territori di Fermo, Porto San Giorgio, Petritoli e Amandola. Nel biennio 1986-88 è stato anche consulente specialista di patologie urologiche presso la comunità di Capodarco per poi arrivare a ricoprire il ruolo di medico dirigente con funzione di pronto soccorso e responsabile dell’unità operativa semplice “Potes” nel dipartimento dell’Area Vasta 4 in via Zeppilli. E per concludere 21 mesi come direttore facente funzioni dell’Unità Operativa Complessa Medicina e Chirurgia d’accettazione e d’urgenza. Alla fine, all’eta di 65 anni, dopo una carriera interamente dedicata al soccorso, lo scorso 31 dicembre per lui è arrivato il momento di congedarsi.

Dottor Postacchini, come è stato questo rientro operativo nella vita di tutti i giorni?

«Ad essere sincero non ho ancora metabolizzato del tutto. Per adesso la sensazione è molto simile a quando andavo in ferie, però devo ammettere di essere un pochino più alleggerito rispetto ai compiti istituzionali della direzione della centrale del 118».

Lei era tra gli operatori in servizio il giorno di Capodanno. In un anno in cui le restrizioni per la pandemia non ci hanno consentito di festeggiare al meglio, il fatto che l’ultimo giorno di lavoro sia coinciso con la notte di San Silvestro per lei ha rappresentato una sorta di festa?

«Il 31 dicembre sono stato in servizio fino alle ore 20, poi però mi sono dilungato un po’ nel salutare tutti gli operatori sanitari, i volontari e gli autisti. Sicuramente sarà una data che ricorderò proprio per quello che per me ha rappresentato piuttosto per il fatto che fosse Capodanno. Dopo 8 anni dire addio alla centrale operativa del 118 è stato come vivere una separazione forzata tra due persone che si amano. A marzo scorso, in piena emergenza sanitaria, avevo compiuto 65 anni e maturato 40 anni di servizio ma avevo comunque scelto di ritardare il pensionamento e rimanere in servizio fino al termine dell’anno. Alla fine, però, un limite andava posto, sebbene per me abbia significato uno strappo importante rispetto alla quotidianità».

Com’è stato vivere in prima linea la pandemia?

«La gestione della pandemia è stata un’esperienza unica. È stato un vero banco di prova: rivedere tutti i protocolli, organizzare i tamponi, il tracciamento, l’isolamento, i ricoveri, la cura dei pazienti e la pianificazione dell’attività vaccinale. Seppur molto dura, è stata un’esperienza che ci ha fatto crescere tutti profondamente. Tuttavia, purtroppo, devo registrare che oltre alla pandemia in questi anni abbiamo avuto delle problematiche abbastanza gravi, non ultimo il terremoto del 2016. Sono stati due eventi che hanno coinvolto tantissime persone e molte di esse non ce l’hanno fatta. Sono stati momenti di forte tensione in cui abbiamo cercato di dare il massimo per la gente che si trovava in difficoltà».

C’è un aneddoto in particolare che le rimarrà impresso di questi ultimi due anni vissuti all’insegna del Covid?

«Uno dei ricordi legati alla pandemia che mi porterò sempre dietro è senz’altro quando mi è capitato di trasportare due persone, moglie e marito, entrambe positive al Covid-19. Quell’esperienza mi è rimasta impressa perché, sotto il punto di vista affettivo, mi segnò trovare due coniugi uniti dallo stesso destino».

Dall’alto della sua esperienza che consiglio si sente di dare ai suoi colleghi del 118 e in particolare a tutti quei ragazzi che approcceranno le professioni sanitarie per la prima volta in questo periodo storico così complicato?

«Innanzi tutto tengo a dire che il servizio sanitario nazionale è una colonna portante della società e quindi è un elemento di grande sicurezza e di tutela della salute. Lavorare per l’istituto sanitario nazionale è un onore e un motivo di orgoglio proprio per la funzione di protezione e di tutela che si svolge per ogni cittadino. Il consiglio che darei è tenersi in costante aggiornamento e fare corsi di formazione per essere capaci di offrire il meglio a chi si trova in situazioni di bisogno. La qualità del servizio che si fornisce è un elemento importantissimo. Credo che scegliendo di fare lavori di assistenza e lavori sanitari ognuno riscopre questo aspetto in autonomia, ma ribadisco che la qualità del servizio dipende dalla propria formazione, dalla passione, dallo studio e dall’applicarsi costantemente in materie complesse come la medicina, l’infermieristica o altre branchie del sistema sanitario».


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