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Post voto, l’analisi di Del Monte (Articolo 1): «Sconfitta annunciata, ora rifondare la sinistra»

POLITICA - Analisi del voto ed appello per una costituente della sinistra. Il segretario provinciale di Articolo Uno, Alessandro del Monte, analizza l'esito delle urne ed invita il campo progressista ad un confronto ad ampio raggio su tutti i temi per battere la destra.

«Superato il tempo della campagna elettorale giunge inevitabilmente il primo momento del confronto, delle analisi, delle valutazioni e delle prospettive. La destra più reazionaria, nostalgica post 1945 vince e bene. Una destra parolaia, abile, potentemente ideologica, come sanno essere potenti certe ideologie quando allignano nel bisogno, nella crisi, nella rabbia. Una nuova vecchia destra plebiscitaria, demagogica, che salda le politiche liberalistiche sul piano economico nel contesto globale con le istanze securitarie ed oscurantiste, da stato etico, comprimenti quelle sociali e dei diritti tra le mura di casa. Una destra corporativa che fomenta il frazionamento interclassista del corpo sociale. Il modello Orban all’italiana. Ma l’Italia non è l’Ungheria. La terribile situazione economica e sociale produrrà vincoli e richiederà senno, staremo a vedere.

Il centro-sinistra e la sinistra in disgregazione, invece, giunti ad una crisi irreversibile di cultura, identità e consapevolezza perdono e male. Le urne hanno sentenziato e l’espressione popolare, al netto dell’astensionismo che certamente pesa oramai nelle crisi delle democrazie in tutto l’Occidente, va non solo rispettata, ma è proprio da quella, che occorre produrre e ridisegnare una sintesi critica, coraggiosa e radicale. L’accordo con il M5S di Giuseppe Conte era una necessità vitale, sia in seno all’unica possibilità di competere davvero in queste elezioni politiche sia per una immaginata articolazione successiva. Rammentando essere stato, Conte, il Presidente del Consiglio che abbiamo convintamente sostenuto in una delle fasi più dure del Dopoguerra, prima che Renzi si facesse emissario nella doppia funzione e di riportare l’italico establishment in Parlamento, per la prima volta nella storia della Repubblica sostanzialmente manchevole in quella legislatura e per spezzare la saldatura del cosiddetto campo Rosso-Verde, che avrebbe dovuto rilanciare il contesto della sinistra con PD, M5S, Articolo Uno, SI e componenti ambientaliste. Un avvio che avrebbe avuto peraltro il compito di fare da apripista, intanto embrionalmente di fatto, ad un processo rifondativo del campo socialista ed ecosocialista nello sforzo dialettico con anche altre realtà e personalità della sinistra ampiamente intesa, che avrebbero potuto anch’esse intravedere uno spiraglio di apertura circa le macro questioni identitarie e valoriali da condividere. In primis nella ponderata critica alle politiche neoliberiste nel complesso contesto globale e nella nuova agenda socio-economica e dei diritti sociali e civili, il lavoro, la salute, i beni pubblici fondamentali, l’economia, il Welfare, la guerra mondiale a pezzi – come grida Bergoglio – la pace, il fisco, la legalità, il nuovo modello di sviluppo in un mondo e fasi nuovi. Affermare che si siano perse le elezioni per sola colpa di Conte o di Calenda vuol dire rileggere la politica non sui grandi piani di respiro e nelle effettive macrodinamiche, bensì con un approccio in chiave aritmeticatesca e da risentimento di bassa sintesi.  Un grande partito, come è il Pd, ed una grande lista, come quella del “Pd – L’Italia democratica e progressista”, in una coalizione che sebbene più o meno affiatata mastica di politica ad un livello perfino alto, costruisce le condizioni, non le patisce, egemonizza i processi, non li subordina. Se Giuseppe Conte da appena neo eletto Presidente del M5S trovavasi in affanno nella ricerca delle condizioni più favorevoli per un suo consolidante suffragio interno, ma di chi il compito se non di un partito e lista grandi nel sostenerlo quantomeno a non far venire meno le condizioni più favorenti? Questo fa una grande realtà politica. E non mutua con pedanteria da altrui alcuna agenda, anche se solo sul piano comunicativo, bensì restituisce il proprio e degli alleati progetto del presente e del futuro. Su un discorso di responsabilità nei confronti del Paese non avrebbe dovuto l’incauto Conte indebolire il Governo del suscettibile Draghi in una fase di tremenda difficoltà? Certamente. Bene. Ma perché complicare l’esistenza di un neo leader politicamente amico che cerca di affrancarsi col proprio complesso Movimento, inserendo, ad esempio, in un provvedimento così rilevante un assist alla rottura catartica per i suoi come il termovalorizzatore di Roma Capitale? Sarebbe bastato recepire i nove punti del documento Conte – temi di carattere progressista e che si rinvengono peraltro più o meno a diverso titolo declinati in tutti i programmi delle forze di sinistra –, includerli e farne appunto organica parte del corpus in una sintesi programmatica di coalizione.
Ma forse una certa parte del Pd mostra da sempre una atavica avversione al M5S, che, sebbene in profonda trasformazione, gli ha fatto preferire l’affidabilità di Carlo Calenda e Renzi, che già occhieggiano per riforme costituzionali e non solo alla destra, tanto da farsi così erodere, la lista Pd, sia al centro da Azione e Italia Viva sia a sinistra dal M5S. Ora, anche un bambino avrebbe posto il seguente quesito, ossia come competere con una lista data al 20%, sperando il 25, dove SI-Ve potevano lottare per anche un 5% ed una destra data con certezza al più del 40, considerando una astensione oramai sistemica?!
Dopodiché, Articolo UNO nasce nell’autonomia ma per alcuna autoreferenzialità eternamente autoespansiva, laddove, senza doti di preveggenza con quel nostro “Perché quel che c’è non basta” fondativo, ci ha visti argomentare, Pier Luigi Bersani in testa, l’esortazione a che si desse il via ai lavori per una nuova realtà costituente: aggregante, di massa, plurale ma poggiante altresì su saldi principi identitari, per un nuovo soggetto socialista, presente in ogni dove.

Soggetto socialista presente ovunque, tranne che in Italia, quale sorta forse di amaro contrappasso per avere avuto il più grande ed avanzato Partito Comunista del panorama occidentale. Un modello che fu d’ispirazione mondiale per ogni sinistra della libertà e nella libertà. Non trattasi quindi del riflesso rassicurante di vuote nostalgie in un mondo certamente assai mutato, ma non aver compreso che le istanze dell’umanità contro ogni forma di disuguaglianza ed ingiustizia fossero tratti caratterizzanti insiti nella Storia, le cui costanti permangono intatte nei dis-equilibri socio-economici odierni, ha significato smarrire visione per un mondo altro.
Nel ritardo di questa storia sconfitta, nel paradigma liberista e nella conseguente finanziarizzazione dell’economia, l’umanità gestita dal mercato e non l’umanità a gestire il mercato, per dirla con Mujica, che ci mostrava tutto il suo fallimento, in questo panorama da punto ultimo ritenuto immutabile, prende le mosse nel 2007 il Pd di ideazione veltroniana.
Una fusione a freddo a vocazione maggioritaria sull’onda lunga di quel tempo già in superamento e che da noi assumeva quale limitata misura di sostanza la reazione al populismo liberal berlusconiano. Una buona e nobile volontà di mera fratellanza di matrice europeista e palpitante di anelanti sorti progressive che avrebbe potuto giammai fornire le grandi e compiute risposte alle complesse criticità già da tempo annunziate. Fu così che un montante pragmatismo derivante finì per reggersi quasi esclusivamente sulla credibilità di una classe politica che per capacità ed esperienza era certamente di prim’ordine ed un personale di amministratori, l’infelice definizione di partito dei sindaci che se ne diede, di profilo altrettanto alto circa competenza e statura morale.
Non si trattava di conservare il passato – scrisse Adorno – ma di realizzare le sue speranze.
Ecco quindi il momento di caduta dirimente in cui la rappresentanza, sia essa solamente politica o altresì di governo, diviene establishment. Poiché establishment non è per forza chi di per sé governa e gestisce il potere – a meno non si desideri essere opposizione per attitudine in luogo del gramsciano “per cambiare lo stato di cose presente”, ciascuno dovrebbe aspirare a governare – ma quando chi governare rompe, spezza, il legame con il mondo che si candida a rappresentare. Questo è ciò che si fa establishment. E questo per la sinistra è avvenuto da gran tempo.

Una visione onirica quindi o di clan, elitaria o settaria, funambolica o capziosa che smarrendo i fondamentali antropologici caratterizzanti ogni sinistra, lasciando scivolare l’ ”Io” sul “Noi”, consentendo arretrasse la dimensione collettiva rispetto alle oligarchie organizzate, la dogmatica generosità corale sul particolarismo, i diritti civili disgiunti dalla questione economico-sociale e su questa preponderanti, ha generato qualcosa di non oltre ridefinibile ma di esclusivamente rifondabile. Quando si affievoliscono, o sono manchevoli, le ragioni potenti della propria essenza e la inerente cultura per una riconoscibile e condivisa prassi, col suo corollario di fondanti lotte caratterizzanti e simboliche tese a rappresentare la tua porzione di mondo nella visione d’un mondo nuovo, il continuo avvicendarsi di segretari ed organismi dirigenti abbattuti, l’eterno ricorso alle geometrie politiche oltre la strategia, le correnti in costante conflitto e non di mozione-visione, le leggi elettorali salvifiche come questa pessima, quando tutto illanguidisce si tenta disperatamente di colmare con le sovrastrutture una oramai impossibile fisiologia. Sino a farne un metodo. Non è, specialmente a sinistra, né il segretario né la segreteria di turno a dover dirimere la salda e strutturale identità di una forza politica, bensì le solide basi e le grandi ragioni del proprio processo fondativo, che rifuggendo dalla logica provvisoria ed arbitraria, adatta la propria risposta ai mutamenti senza smarrirsi nel relativismo praticone della momentanea posizione.
Tuttavia, checché ne possa dire ogni detrattore con le proprie anche più robuste ragioni, il Pd è ed è stata sino ad oggi la forza politica senza la quale non sarebbe stato possibile giocarsi una partita alternativa alla destra e al centrodestra in questo Paese. E’ un fatto, tangibile, non un giudizio. Dacché ogni tentativo prodotto di ridestare qualcosa alla sinistra di quella realtà, che non fosse la parcellizzazione in chiave autarchica dell’atomo e quindi una condizione altresì di limite storico-culturale, quasi ossimorica rispetto al concetto più corale di sinistra, non soltanto ha trovato scarso seguito ma anche repentino naufragio. Anche in queste elezioni.
Ecco perché, con tutte le donne e gli uomini di buona volontà della sinistra, con l’ausilio determinante del sindacato e dell’associazionismo in lotta sui diritti sociali e civili, ambientali, dell’antifascismo, con le personalità della società civile affinché ritrovino le ragioni forti di un impegno collettivo, occorre presto dare vita ad una grande costituente per una nuova forza socialista organizzata di massa, di popolo.
Ben vengano i congressi di chicchessia quali luoghi anche statutari di imprescindibile e doveroso confronto, ma guai se l’affidamento sarà ancora sulla toppa che procrastinerà un maquillage nel vizio d’attesa che la peggior destra di sempre compiendo sfaceli ci farà tornare in sella.

Alessandro Del Monte, segretario Articolo Uno provincia di Fermo



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