di Walter Luzi
L’abbraccio di Ascoli a Carlo Mazzone. Ventinove anni dopo Costantino Rozzi, tutta la città, commossa, riconoscente, si è stretta intorno alla famiglia di un altro dei suoi eroi. Dei suoi due condottieri divenuti i simboli più fieri del riscatto di una terra di provincia. A cui ha fatto assaporare l’ebrezza delle vittorie, e insegnato alla loro gente l’orgoglio dell’appartenenza. Perchè, in fondo Mazzone, romano e romanista nell’anima, e per sempre, era presto diventato uno di noi. Glielo hanno cantato ancora, fra i tanti cori di acclamazione ed eterna riconoscenza, i tifosi bianconeri non appena il feretro è sbucato da Piazza Roma verso via del Trivio. E’ iniziato così il lungo abbraccio di Ascoli, e dell’Italia sportiva intera, a Carlo Mazzone.
Allenatore all’antica. Definizione che potrebbe suonare come sorpassato, e che invece ne esalta ancor più le straordinarie doti, che per quasi quarant’anni lo hanno fatto amare, e visto fare risultati, in mezza Italia. In chiesa c’erano quasi tutte le delegazioni, o le corone di fiori, in rappresentanza della dozzina di club che ha allenato. A fare l’elenco dei suoi ex giocatori seduti sui banchi della austera chiesa di San Francesco verrebbe fuori una edizione speciale lunga mezzo secolo dell’album delle figurine Panini. Ci sono quasi tutti gli ex bianconeri di ogni epoca.
E’ venuto anche Angelo Calisti, l’eterno “tredicesimo” che ha giocato poco, ma è rimasto nel tormentone che pioveva dagli spalti del “Del Duca” quando il risultato non si schiodava: “Mazzone, metti Calisti!”. Fuori, in Piazza del Popolo, occhi fissi su un maxischermo appositamente allestito, che ha rimandato tutte le immagini e ogni parola della funzione religiosa, tanta gente. La sua gente. A sfidare la canicola, e trattenere il groppo in gola. Moltissimi i romani. Ma anche tanti che in uno stadio non ci hanno messo mai piede. Venuti solo perché “Mazzone era bravo, ed era una persona seria”. Un vecchio sportivo è arrivato con il deambulatore e la sua vecchia sciarpa bianconera degli anni Settanta, dopo mesi e mesi che non usciva più di casa. Solo per lui. Per Carletto nostro. Un attempato tifoso del club Veterani 74 è stato il primo ad arrivare con il suo enorme bandierone su cui c’è l’immagine di un Mazzone come sempre grintoso. Tanti i bambini con indosso le magliette dell’Ascoli e della Roma. Di lui sanno poco ma papà e nonni gli hanno raccontato della sua leggenda.
(il testo prosegue dopo il video)
IN CHIESA
Gli ultimi ad arrivare sono i giocatori dell’Ascoli al gran completo. Passano sotto le forche caudine dell’indifferenza. Guardati, anzi, di traverso, dopo la figuraccia rimediata nel giorno più doloroso, quando c’era da onorare una maglia, e una società, con cotanto passato. E un mito come Carlo Mazzone. Messa solenne. Cantata. Emozione palpabile. Sciarpe e lacrime. Sotto l’altare fra i tanti gonfaloni (Comune Ascoli, A.S. Roma, Fiorentina, Bologna) anche quello del Sestiere di Porta Romana, di cui Mazzone era socio e che ha visto in passato figli e nipoti figuranti nel corteo storico. Porta Romana, il quartiere dove il mister, con la sua famiglia ha sempre abitato. Il più vicino a Roma, e, dunque, al cuore.
Per l’omelia si alternano don Andrea Tanchi e l’arcivescovo emerito Piero Coccia. Il primo ci scherza su. “Come avrebbe fatto Carlo, con la complicità della sua famiglia, abbiamo cambiato la formazione a sorpresa”. Sono entrambi infatti vecchi amici di tutta la famiglia Mazzone, e il vescovo Gianpiero Palmieri, che non soffre certo di narcisismo in favore di telecamere come il suo predecessore, si è accomodato più che volentieri… in panchina. Da profondi conoscitori, di vecchia data, di tutta la famiglia, i due sacerdoti hanno centrato i temi. Don Andrea ha sottolineato il ruolo di educatore di Mazzone, che ha saputo tirare fuori, ex ducere appunto, il meglio, soprattutto umanamente, da tanti suoi giocatori. Stabilendo spesso con loro un legame affettivo reciproco e profondo. Piero Coccia ex arcivescovo metropolita di Pesaro, ma, soprattutto, ex parroco della chiesa del Santissimo Crocifisso dell’Icona, la parrocchia dei Mazzone ne sintetizza le tante qualità, non comuni, soprattutto oggi nel mondo del calcio.
«Carlo ha volato alto – ha detto – libero, anche dai condizionamenti, con onestà, senza scheletri nell’armadio. Ha amato il suo lavoro. Con serietà, rigore, scrupolo. E’ stato esigente e lungimirante, senza mai risparmiarsi. Un lottatore. Un vincente perché rimasto sempre uomo semplice, umile riuscendo a trasmettere la sua essenzialità anche ai suoi giocatori».
Chiudono gli interventi nel finale di celebrazione il sindaco Marco Fioravanti e i tre nipoti. Alessandra, Alessio e Iole. Ascoltando questi ultimi capisci perché la famiglia ha scelto di vivere intimamente un momento tanto doloroso. Di evitare, scontentando tanti, la camera ardente aperta al pubblico. Capisci che è stato giusto così. Che Carletto Mazzone non è stato un grande solo sui campi di calcio. Che è stato un fuoriclasse anche in quella sua casa. Dove tornava, puntualmente, ogni domenica notte. A tutti i costi. Perchè il lunedì in famiglia era sacro per lui. E sacra la sua famiglia. Diventata con gli anni sempre più numerosa con l’arrivo di nipoti e pronipoti. Per i quali è stato patrimonio di umanità, miniera vivente e inesauribile di insegnamenti.
«Dovete esse – raccomandava sempre loro come ricorda Alessio – forti e gaiardi, ma sempre rispettosi e gentili con tutti. Eravamo la sua squadra vincente. E il capitano di quella squadra è stata nonna. Una donna straordinaria anche lei». Più lacrime che parole ora, mentre dentro e fuori la chiesa piovono applausi spontanei senza fine. In Piazza del Popolo fra i bandieroni che sventolano la gente aspetta solo che il feretro si fermi in mezzo a loro.
I romanisti della “Brigata Magara” hanno portato anche un lungo striscione. “In panchina un gladiatore. Nella vita un gran signore” c’è scritto. Cori e lacrime adesso. Ma le voci, ora, si strozzano in gola. Ci mancherai. Lo sappiamo. Mancherai a tutti. Il carro con la bara di Carlo Mazzone, coperta di fiori e maglie di ogni colore, e il piccolo corteo dei famigliari che lo segue, viene bloccato e avvolto per lunghi minuti dall’abbraccio, forte, caldo, della folla. Di quelli che non si dimenticano più.
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