di Giuseppe Fedeli*
Oggi un personaggio, che si lega a una situazione, che a sua volta fa da input a una narrazione, “funziona” se è recepito, da una parte dal Grande Spettacolo TV, dall’altra dal fruitore del mezzo televisivo, come omogeneo al sentire, allo stato d’animo, al senso comune della collettività. Al contrario di quanto si possa pensare, non c’è bisogno di geni o personaggi che dicano cose o veicolino messaggi sensazionalistici: se anche deviano dal percorso del politically correct, per il solo fatto di incontrare l’indice di gradimento della Grande Platea, i protagonisti salgono agli altari (quand’anche la notorietà duri il tempo di un accadimento, di una notizia: la marginalità è, essa stessa, un business…) degli opinion maker.
Al pari degli influencers inventati a tavolino, in questo scenario così liquido e frammentato, a ogni storytelling corrisponde il suo “portavoce”, a ogni cambio di guardia (dalla guerra allo stato di non belligeranza; dal Covid a uno stato di debellamento della pandemia; etc etc) un guru della informazione (o, meglio, dell’infotainment). Si susseguono scene e spettacoli mutevoli, in un circuito (ovvero circo) massmediatico, che coinvolge e mette in scena l’uno e l’altro: da una parte il Grande Schermo, dall’altra chi ne usa, al punto da diventarne scimmia, maschera che il Grande Spettacolo ingloba. Esemplare in tal senso “Il Grande Fratello”, che, spogliato del trash, appare come un luogo di formazione dove comparse, create ad arte da agenzie, apprendono “scientificamente” la tattica e la strategia per vincere. Il fine?: confondere sempre più la mente di chi rinuncia al suo apparato critico (posto che l’abbia), così da renderlo supino ai diktat di chi (lo) comanda. Il paradosso?: la tanto millantata libertà di espressione fa (sempre) rima con audience, col dio quattrino.
*Giudice
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