di Sandro Renzi
In 15 anni l’industria italiana è crollata. Solo il ricco Nordest ha retto di fronte alla crisi. E’ quanto emerge da uno studio della Cgia di Mestre che ha preso in esame i dati 2007-2022 certificando che, sebbene l’industria contribuisca al Pil nazionale per il 21%, il valore aggiunto reale (ovvero al netto dell’inflazione) dell’attività manifatturiera italiana è sceso dell’8,4% in tre lustri. In Europa solo la Spagna ha fatto peggio dell’Italia facendo registrare un -8,9%. A pesare sui conti delle aziende, come noto, la grande recessione del 2008-2009, la crisi dei debiti sovrani del 2012-2013, la pandemia del 2020-2021 e l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.
«E’ comunque utile evidenziare che tra il 2019, anno che precede lo scoppio della più grande crisi economica/sanitaria avvenuta a partire dal secondo dopoguerra, e il 2022, il settore manifatturiero italiano ha realizzato un rimbalzo superiore a quello registrato nel resto degli altri principali Paesi Ue. Insomma, se allarghiamo il periodo di osservazione partendo dalla crisi finanziaria dei mutui subprime non abbiamo ancora recuperato il terreno perduto, diversamente, se lo restringiamo a partire dalla crisi pandemica esplosa quattro anni fa, nessun’altra grande manifattura europea ha fatto meglio della nostra» rileva l’Ufficio Studi della Cgia. In sostanza, le crisi 2008-2009 e 2012-2013 hanno ridotto la platea delle imprese manifatturiere italiane, ma hanno rafforzato la tenuta e le performance di quelle rimaste sul mercato. La conferma arriverebbe dal successo registrato dai prodotti made in Italy (alimentare-bevande, arredamento-casa, abbigliamento-moda, automazione-meccanica) in tutti i principali mercati mondiali. «Questi dati – afferma il segretario della Cgia, Renato Mason– dimostrano che c’è la necessità di mettere a punto una politica industriale di lungo periodo, deregolamentando, dove possibile, per non frenare la crescita e lo sviluppo, con una particolare attenzione al tema del credito. Le difficoltà di accesso ai prestiti bancari, infatti, stanno diventando un serio problema per tante Pmi».
Il comparto che nell’industria italiana ha subito la contrazione negativa del valore aggiunto più pesante in questi ultimi 15 anni è stato il coke e la raffinazione del petrolio (-38,3 per cento). Seguono il legno e la carta (-25,1 per cento), la chimica (-23,5 per cento), le apparecchiature elettriche (-23,2 per cento), l’energia elettrica/gas (-22,1 per cento), i mobili (-15,5 per cento) e la metallurgia (-12,5 per cento). «Per contro, invece, i settori che esibiscono una variazione anticipata dal segno più sono i macchinari (+4,6 per cento), gli alimentari e bevande (+18,2
per cento) e i prodotti farmaceutici (+34,4 per cento). Tra tutte le divisioni, la maglia rosa è ad appannaggio dell’estrattivo che, sebbene possegga un valore aggiunto in termini assoluti relativamente contenuto, in 15 anni ha registrato un incremento spaventoso pari al 125%» rileva ancora la Cgia. Tiene, come detto, solo il Nordest con un risultato positivo che ha toccato il +5,9%. Dal Centro (-14,2%) al Mezzogiorno passando per il Nordovest, l’industria ha fatto passi indietro.
A livello regionale sono le imprese della Basilicata ad aver registrato la crescita del valore aggiunto dell’industria più importante (+35,1%). Risultato che secondo l’Ufficio studi della Cgia è in massima parte ascrivibile agli ottimi risultati conseguiti dal settore estrattivo, grazie alla presenza di Eni, Total e Shell. In seconda posizione si colloca il Trentino Alto Adige (+15,9%) che ha potuto contare sullo score del settore agroalimentare, della distribuzione di energia, delle acciaierie e delle imprese meccaniche. In terza posizione, invece, l’Emilia Romagna (+10,1 per cento) e appena fuori dal podio il Veneto (+3,1 per cento). Dal quinto posto in poi tutte le regioni italiane presentano una variazione di crescita del valore aggiunto negativa. Le Marche hanno fatto registrare un -9,7% che, tradotto in termini assoluti, vuole dire un miliardo di euro in meno in quindici anni.
A livello provinciale Milano, Torino e Brescia rimangono le province più industriali del Paese. «Delle prime 10 province più industrializzate d’Italia, sette si trovano lungo l’autostrada A4». La prima tra le cinque province marchigiane è Ancona che, pur perdendo tre posizioni in classifica e attestandosi al 29esimo posto, tra il 2007 ed il 2022 ha guadagnato dieci punti percentuali in termini di valore aggiunto. Quella di Fermo scende al 73esimo posto passando da 1 miliardo e 333 milioni di euro di valore aggiunto a 1 miliardo e 93 milioni di euro e quindi lasciando sul terreno almeno 18 punti tra il 2007 ed il 2021.
Ascoli Piceno è al 76esimo posto perdendo 4 punti percentuali. Buona la performance della provincia di Pesaro-Urbino (38esimo posto) con un balzo del +21,7% che, in termini assoluti, si traduce per le industrie del territorio in circa 500 milioni di euro di valore aggiunto in più. Cinquantesimo posto per il Maceratese che guadagna 8 punti in quindici anni ma la sua posizione rimane di fatto invariata nella classifica generale.
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