di Gabriele Vecchioni
(ove non specificato, le foto sono dell’autore)
Qualche mese fa, l’amico Franco Laganà (Past President della sezione ascolana del Club Alpino) scrisse un articolo ospitato nella rubrica che sviluppa sul quindicinale locale La Vita Picena. Nello scritto, breve ma ricco di spunti interessanti, l’autore approfondiva alcuni argomenti relativi al nostro rapporto con l’ecosistema bosco. In questo pezzo saranno riprese alcune sue tematiche, per analizzarle e approfondirle.
Una storia (breve) dei boschi appenninici. In epoca protostorica, l’Italia era coperta da una immensa foresta di latifoglie; diecimila anni fa cominciò la rivoluzione agricola (la cosiddetta rivoluzione neolitica) e, con essa, il primo sfruttamento del patrimonio forestale, anche se in misura ridotta: «L’erosione del bosco, la domesticazione delle piante e degli animali sono senza dubbio relazionate al numero degli esseri umani che devono vivere su un territorio; il numero esiguo dei progenitori non può aver arrecato grosse modificazioni alla foresta di latifoglie e agli acquisti di fondovalle, al bosco e alla palude di allora (S. Anselmi, 1989)».
La storia dell’uomo è strettamente connessa con quella del bosco; dall’antichità remota, esso era sacralizzato e abitato (nell’immaginario popolare) da dèi, ninfe e altri personaggi fantastici, simboli della forza spontanea di rigenerazione della natura.
Il bosco sacro era il lucus, la radura dove penetrava la luce (il termine deriva da lux, luce) e nella quale effettuare i sacrifici per ingraziarsi gli dèi; aree alberate circondavano i templi, anche quelli urbani avevano un lucus. Con l’avvento del Cristianesimo si attenuarono le pratiche degli atti devozionali nei boschi (il primo monachesimo cristiano era però rispettoso dei boschi, basti pensare alla citatissima frase di San Bernardo di Chiaravalle: «Troverai più nei boschi che nei libri…») e, in pieno Medioevo, l’atteggiamento della gente cambiò anche perché l’insegnamento era quello che il bosco era stato creato da Dio a disposizione dell’uomo. Il bosco diventò un luogo popolato da animali pericolosi, spesso mostruosi; un surrogato di quel bosco si ritrova nelle chiese cristiane: «Lo stesso effetto riprodotto secoli dopo nelle chiese e nelle cattedrali dell’architettura romana e gotica. Le colonne della navata centrale raffigurano gli alberi di un bosco di pietra che nei capitelli, come chiome, nascondono insidiosi animali feroci (S. Longhi, 2018)».
Ma torniamo all’argomento dell’articolo. Le operazioni messe in atto per le bonifiche, le esigenze legate al crescente popolamento umano e alla creazione di aree a pascolo («…per molti secoli il metodo più diffuso per misurare l’estensione di una foresta fosse il numero di maiali che riusciva a nutrire, Le vie del Medioevo, 1991») causarono una forte diminuzione delle aree boscate; l’acme fu raggiunto nel sec. XIX, fino a metà del successivo: interi boschi sparirono, in nome del progresso e della necessità.
Franco Laganà, nel suo articolo, ci informa che le mappe catastali dell’Ottocento evidenziano, nelle Marche, un’area coperta da boschi pari al 15 % circa della superficie boscata attuale. Spesso i boschi erano considerati “spazi domestici”: i castagneti (boschi semi-artificiali ma pur sempre boschi) erano considerati superfici agricole a tutti gli effetti nelle statistiche forestali ottocentesche (M. Varotto, 2023). Anche in questo caso, ricorriamo a Sergio Anselmi che scrive che un grande balzo demografico si ha nell’Ottocento quando, nel giro di cento anni, la popolazione aumenta notevolmente di numero, ed «È ragionevole pensare che questa popolazione abbia spiantato alberi e spinto le colture cerealicole fin sulle prime balze appenniniche [toponimi quali “Pian dell’oro” o “Monte della Farina” indicano fin dove era spinta la coltivazione dei cereali, NdA]».
Nell’Ottocento la situazione dei boschi è ormai pregiudicata, nonostante la corrente letteraria romantica ne avesse fatto fonte di ispirazione di vita (Nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, Foscolo scrive di «querce ondeggianti sotto a’ miei piedi; la selva fremeva come mare burrascoso, e la valle ne rimbombava […] la mia anima attonita e sbalordita ha dimenticato i suoi mali ed è tornata alcun poco in pace con sé medesima»).
L’aumento delle superfici disboscate durò fino ai primi decenni del Novecento: memorabile, durante il fascismo, la “battaglia del grano” che servì «a pareggiare una delle voci più squilibrate della bilancia commerciale». Senza voler entrare in questioni per le quali è necessaria una competenza specifica, occorre tener presente che l’espansione della cerealicoltura (e la conseguente erosione del bosco) ha portato alla privatizzazione degli utili e alla socializzazione delle perdite, nel senso che, a fronte di profitti privati, i danni legati all’erosione del bosco, come per esempio le frane, sono ricaduti (e ricadono) sull’intera comunità.
Al giorno d’oggi, sembra essersi interrotto il trend distruttivo e i boschi stanno (ri)conquistando spazio: dal 2015 al 2020 la copertura forestale in Italia è aumentata di quasi un punto percentuale (dal 30,8 al 31,7 per cento), più che in qualsiasi altro Paese europeo e al di sopra di nazioni a tradizionale vocazione boschiva come Germania e Svizzera (entrambe al 31 per cento).
La situazione attuale del patrimonio boschivo. Oggi l’Italia è, con 11,4 mln di ettari e quasi il 32% della sua superficie territoriale, il secondo tra i grandi Paesi europei per copertura forestale, dopo la Spagna. In realtà, altre nazioni hanno coperture maggiori (per es., la Svezia e la Finlandia, con il 70% del loro territorio) ma con una popolazione numericamente assai inferiore. Oltre alle politiche di (ri)forestazione messe in atto negli ultimi decenni, dopo il periodo della “cementificazione” prolungatosi fino agli anni ‘90 del Novecento (in trent’anni, l’Italia è passata da una copertura boschiva del 20% a quella attuale), c’è stato lo spopolamento delle aree interne che ha sicuramente favorito l’espandersi della superficie coperta dal bosco.
Più di un terzo dei boschi italiani sono però difesi all’interno di aree naturalistiche protette e molte aree boscate hanno successioni ecologiche non ancora stabili. «In Italia non è rimasto quasi nulla d’intatto, anzi il territorio se non è urbanizzato, è caratterizzato quasi totalmente da formazioni secondarie. Tutti i nostri boschi sono stati in qualche modo manomessi nel tempo, in maniera più o meno evidente, anche quelli ritenuti meglio conservati (fustaie, boschi con alberi vetusti e con legno morto, ecc.) […] Lentamente [molto lentamente, NdA], forse un giorno avremo altri boschi con caratteristiche di quelli primari, se la natura verrà lasciata libera di compiere il suo corso (K. Cianfaglione, 2011)».
L’importanza della corretta gestione delle aree montane. I boschi di montagna sono importanti per la conservazione delle riserve di acqua e del clima delle zone situate a un livello altimetrico minore; è importante l’utilizzazione multipla delle aree montane per motivi diversi legati, soprattutto, al turismo ricreativo, alla regimazione delle acque, alla produzione agricola. Attività come la deforestazione, lo sfruttamento esagerato dei boschi (con turni di ceduazione ravvicinati), il pascolo abusivo, la costruzione di strade spesso inutili, portano all’erosione del terreno. Il cattivo sfruttamento degli ecosistemi montani può causare disastri quali inondazioni catastrofiche, movimenti franosi del terreno, l’esaurimento delle sorgenti e la riduzione della biodiversità, con conseguenze che si ripercuotono fino alle “terre basse” (valli, pianure, zone costiere). Lo scenario è aggravato dal cambiamento climatico in atto; l’innalzamento della temperatura provoca danni gravi alla vegetazione: oltre una certa temperatura si riduce il processo di fotosintesi «con conseguente minore produzione di zuccheri, ovvero meno energia disponibile per le piante, sia per crescere che per difendersi dall’attacco di elementi patogeni come funghi, batteri, virus e insetti (F. Laganà, 2023)».
Nella nostra regione (ma l’assunto vale anche per altre realtà geografico-amministrative del nostro Paese) siamo in presenza di un sistema-bosco relativamente giovane (meno di 200 anni) che ancora non assume le caratteristiche di «sistema forestale maturo con grado di biodiversità elevato». La quasi totalità dei boschi che l’osservatore percepisce come “antichi e belli” sono relativamente recenti: un campione vicino alla città picena è dato dai boschi della Montagna dei Fiori dove è rarissimo trovare esemplari vetusti; ci sono sì ceppaie centenarie ma le associazioni risentono delle secolari pratiche di ceduazione. Ancora, nell’articolo citato si legge: «Un esempio viene da uno studio effettuato sui Monti Sibillini che ha evidenziato che dal punto di vista della fauna presente – animali, insetti, ecc. – i boschi esistenti sono assimilabili ad aree agricole ben conservata piuttosto che a foreste selvatiche e questo è il risultato di secoli di sfruttamento».
Considerazioni finali. Affidiamo la chiusura dell’articolo alle parole di Sergio Anselmi (uno storico, non un botanico, quindi non accusabile di settarismo) che, nel già lontano 1989, scriveva: «La minaccia rappresentata dalle attività umane mal programmate nei confronti di questi ecosistemi e il carattere irreversibile del danno prodotto evidenziano problemi che vanno affrontati e risolti con urgenza. Di conseguenza, è necessario studiare il dinamismo delle associazioni vegetali, la stabilità, o l’instabilità, della vegetazione dei vari tipi di suolo montagnoso, in relazione alle esigenze di un adattamento e di utilizzazione di dette zone».
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