di Giuseppe Fedeli *
La pena naturale
«La questione, posta dal Tribunale di Firenze al vaglio del Giudice della Legittimità costituzionale, certamente tocca profili delicati, che riguardano tematiche di teoria generale altrettanto rilevanti, su tutte quelle concernenti le funzioni della pena ed il divieto di bis in idem sostanziale. Ma, soprattutto, quella di cui ci accingiamo a parlare è una questione, che si colloca in uno scivoloso territorio di confine, quello che separa diritto ed etica».
Ipotesi non prevista dal nostro ordinamento, la pena naturale -principio già presente in altri ordinamenti giuridici- deve essere intesa come il male di carattere fisico, morale o psicologico che l’agente subisce per effetto della sua stessa condotta illecita colposa (esempio di scuola: incidente stradale causato da una condotta del conducente -illecita e colposa-, che provoca la morte di un membro della propria famiglia, che si trovava all’interno dell’autovettura). Dal che dovrebbe discendere la “facoltà” per il giudice di astenersi dal condannare un imputato, dal momento che questi ha già patito una sofferenza (vuoi direttamente, vuoi indirettamente), proporzionata alla gravità del reato commesso. Una volta accertata la responsabilità penale di un soggetto, l’inflizione della pena sembra essere un automatismo, ma non è esattamente così. La nostra Carta costituzionale pone al centro del sistema l’individuo, e le leggi non vanno ritenute “sacre”, dacché sono in funzione dell’individuo, e non viceversa. Nessun automatismo può essere assoluto. Una pena concretamente priva di una qualsivoglia utilità tradirebbe lo spirito della Costituzione e la logica dell’ordinamento, sarebbe un proclama vuoto, quando non dannoso: in particolare, riuscirebbe contraria al senso di umanità, che è la cifra del diritto naturale, e che è formalmente esplicitata negli artt 25 (attraverso il principio di offensività) e 27 comma 3 della nostra Carta (nonchè nella maggior parte degli ordinamenti sovranazionali). E se è vero che, purtroppo, il diritto non sempre va d’accordo con l’etica, non di meno la Costituzione è innervata, sia in linea di principio che dal punto di vista attuativo, da una ratio ispirata al buon senso e al rispetto assoluto delle prerogative e dei diritti dell’individuo. La Consulta si è pronunciata, con sentenza depositata in data 25 marzo n. 48/2024, dichiarando l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale.
Tralasciando, per ragioni di spazio, il fatto, il Tribunale remittente asseriva, letteralmente, che «l’imputato, per effetto della propria condotta e più precisamente in relazione alla morte del nipote che egli stesso ha contribuito a cagionare, ha certamente già patito una sofferenza morale proporzionata alla gravità del reato commesso, con la conseguenza che un’ulteriore pena inflitta con la sentenza di condanna risulterebbe sproporzionata». Di conseguenza, il giudice a quo eccepiva che l’art. 529 c.p.p., qualora non consentisse di dichiarare l’improcedibilità del fatto nell’eventualità in cui l’imputato abbia già scontato una poena naturalis, violerebbe i principi costituzionali di necessità, proporzionalità ed umanità della pena, sostanzialmente rifacendosi al πάθει μάθος (pàthei màthos) della tragedia eschilea: a cagione della sofferenza patita, il “responsabile” non avrebbe necessitato di alcuna rieducazione ulteriore rispetto a quella già derivante dal dolore provato.
In primo luogo, l’assunto di partenza è quello della non esclusività della funzione rieducativa, nonostante unicamente a questa faccia riferimento l’art. 27, comma 3, Cost.
Ciò premesso, la costante giurisprudenza della Corte costituzionale sottolinea il fatto che la pena possa assolvere anche alle ulteriori funzioni elaborate nel tempo nella prassi applicativa, ma anche nell’elaborazione dottrinale. Può giungersi quasi a parlare di un “catalogo aperto”, tendente all’atipicità, delle funzioni astrattamente assolvibili dalla sanzione penale, e ciò è ammissibile proprio in ragione del fatto che qualsiasi funzione cui si ritenga di dar rilievo nella circostanza concreta non potrebbe comunque, in ogni caso, arrecare un vulnus alla funzione rieducativa.
Ora, le circostanze invocate dal rimettente sono comunque tutt’altro che irrilevanti, incidendo su numerosi profili sostanziali, come l’applicazione di circostanze attenuanti generiche o speciali, la dosimetria della pena secondo i criteri di cui all’art. 133 c.p., ma anche processuali, come il giudizio relativo al periculum libertatis ai fini dell’eventuale applicazione di misure cautelari: fattori, questi ed altri, che dimostrano come l’ordinamento sia assolutamente attento alla proporzione tra tutti gli elementi oggettivi e soggettivi del fatto di reato rispetto alla sanzione irrogata, non potendosi sostenere il contrario per il sol fatto che eserciti la propria pretesa punitiva nei confronti di una condotta che, si ricordi, è tipica, antigiuridica e, soprattutto, colpevole. Personalmente, di fronte a casi del genere, più che introdurre un criterio di discrezionalità del Giudice, ritengo “eticamente” giusto, spogliandosi del rigido formalismo, ripensare ab imis fundamentis la funzione retributiva (meglio, la “necessarietà”) della pena, spostando l’angolo visuale dal “malum actionis” (il male causato dall’azione, cioè dalla trasgressione della norma) al “malum passionis“ (il male provocato da una pena, nella specie il dolore -anche, a usare le categorie civilistiche, sotto specie di danno morale, specie esistenziale- che è conseguito al fatto).
* giudice
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati