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«Woodstock, chi fu un vero vincitore della “maratona di pace e musica”»

Giuseppe Fedeli

di Giuseppe Fedeli *

Woodstock, chi fu un vero vincitore della “maratona di pace e musica”

Stiamo parlando dello spettro del Sessantotto, o, ancora più precisamente, delle matrici americane di quel movimento di giovani che, galvanizzati dalle chitarre di Carlos Santana e dai suoni graffianti dei Led Zeppelin (con dentro la carovana, per citarne alcuni, Janis Joplin & The Kozmic Blues Band, Sly & The Family Stone, The Who e i Jefferson Airplane), come spiegava Zygmunt Baumann, “usavano la lotta di classe per ottenere il proprio riconoscimento individuale ad essere differenti”. Fenomeno cosmopolita ma non universale, antirazzista ma fondamentalmente bianco, anticonsumista ma basato sulla centralità e anarchia del desiderio (ricordate lo slogan “vietato vietare”?…), che, sbarcato in Europa, sostituì tecnologia e musica con il conflitto sociale, dietro cui cresceva l’ambizione alla propria visibilità e centralità nella nuova società della comunicazione. Questa dialettica fra un’eguaglianza di censo e un’equità di risarcimento fu la base della rivolta dei diseredati (i “sessantottini”). In Italia, le agitazioni ebbero origine dalla richiesta di rinnovo di 32 contratti collettivi di lavoro, che includeva l’aumento dei salari -uguale per tutti-, e la contestuale diminuzione dell’orario; in pari tempo, il 10 maggio 1968 incominciò una serie di agitazioni studentesche, che protestavano per l’aumento del prezzo degli abbonamenti per l’autobus; a loro si unirono giovani universitari con una propria rivendicazione di assegni di assistenza, i giovani bloccarono e occuparono diversi licei. Di questa “marcia trionfale”, Berlusconi e Trump sono l’epilogo, se non l’esito: dalle esibizioni collettive, condite di trasgressione e acido lisergico- dove il potere lo deteneva la fantasia, alle pretese e alle rivendicazioni individualistiche. Parafrasando il Guicciardini, dall’urlo appassionato di una ecclesia laica, al particulare degli uomini di potere. Negli anni settanta, subito dopo quei focolai di rivoluzione  che, nel bene e nel male, riscrissero la Storia, la Musica, di “sana” ribellione, divenne il volano di una filosofia, di una utopica lebenswelt: il “principale mercato globalizzante”, quel “software di contrapposizione”. A conti fatti, il più grande business privato della storia. “La svolta dell’intelligenza artificiale diventa la metafora di quel beffardo paradosso per cui la memoria del movimento alimenta una retorica reazionaria: l’addestramento dei sistemi generativi si basa proprio sulla tracciabilità di quella straordinaria stagione creativa, ma induce a un opprimente monopolio gestito proprio dai figli di quella generazione” coi pugni chiusi. Prosegue il giornalista Michele Mezza: “C’è da chiedersi se davvero quelle decine di migliaia di giovani a torso nudo che seguirono i giorni del meeting musicale a Woodstock (svoltosi il 15 agosto 1969 nella cittadina di Bethel, Stato di New York) sono davvero deluse e sconfitte o piuttosto quella è stata la vera generazione dei vincitori, che sostituì i padri, smateralizzando lavoro e relazioni sociali con un nuovo alfabeto informatico, e ancora tengono in scacco i figli controllando memorie e risorse di un’età dell’oro che non c’è più”? Quel concerto, in ultima analisi, è stata la colonna sonora della disperata lotta di classe che Warren Buffett ha dichiarato conclusa, dicendo “l’abbiamo vinta noi“: rivoluzione fatta dai “padri”, che tuttora tengono sotto scacco l’immaginario del mondo. Tocca, adesso, ai figli di quei vincitori “sovvertire” lo status quo: ma, perché ciò accada, bisogna accendere la scintilla che è in loro, affinché non rimangano irretiti nelle maliose ma effimere, distopiche promesse di un mondo virtuale.  

 

* giudice


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