di Giuseppe Fedeli *
L’uomo di oggi tra il sacro e il profano
“È nella nostra natura umana credere a qualcosa di indimostrabile perché siamo noi stessi, ontologicamente, degli eventi inspiegabili. Affinché la nostra anima non sia in pena e la nostra condizione terrestre una tortura dobbiamo credere anche ad un futuro, che sia migliore del presente” (D. Mattei, “Sconfessioni”)
Migliaia e migliaia di anni fa, in una caverna buia, l’essere umano inventava il “sacro”, il cui fine è, anche oggi, dare un senso, una giustificazione a tutte le fatiche e le tribolazioni dell’uomo che non ha scelto di stare sulla terra: diversamente, ne andrebbe della nostra ragione di essere-nel-mondo. I giapponesi lo chiamano ikigai, i buddisti reincarnazione, i cristiani parlano di eterna beatitudine. Approdi che giustificano la vita e danno un significato alla morte. Se, tuttavia, l’aldiqua si sostituisce all’aldilà, se la tecnica esautora Dio, se all’esistenza degli uomini viene sottratto il significato del loro stare sulla terra, il rischio che si corre è sprofondare nell’angoscia (la “malattia mortale”) della nostra insensatezza, e di andare alla ricerca di paradisi artificiali, anfetaminici, (false) panacee che leniscano tanta inquietudine. Così, rimasti vuoti i cieli del Cristianesimo, gli occidentali hanno preso in prestito altre spiritualità da popoli oltreconfine, rimodulandole in una forma più prêt-à-porter. Yoga, meditazione trascendentale, pratiche olistiche, pop-buddismo, sedute sciamaniche fuori città e aperture ai chakra abitano ormai da un decennio il nostro immaginario, sono un juke box, da infilarci la monetina nei casi di spossatezza, stress, crisi coniugali, liti e incomprensioni con l’art director, mal di schiena da postura scorretta e via dicendo. E così, “se un tempo la spiritualità serviva a preparare i cuori alla morte che verrà, oggi ci si ricorre per sopravvivere alla vita che c’è già” (osserva l’autore citato in esergo).
Per i meno spirituali, gli agnostici, i miscredenti, il menù offre astrologia, karma, lettura dei tarocchi, manifesting: il tutto per cercare le risposte ai propri disagi o far fronte ai fastidi del quotidiano. La salvezza inventa (da invenio-is, trovare) così altre pratiche e credenze, riti e miti. Il bisogno di irrazionale, di “trascendente”, anche per il laicista si traduce nel ricorso sempre più frequente a magia, rituali, cartomanzia, esoterismi, esorcismi o madonnine più o meno improbabili che piangono, facendone sapienza popolare e cultura dell’italico popolo. “Sembra proprio che essere spirituali non significhi più avere, in effetti, uno spirito nobile, grande, sensibile, ma piuttosto uno spirito “pulito”, performante, autogiustificativo e che trova il suo fine solo nel proprio benessere. Pulire i propri chakra, trovare il proprio centro, stare bene con se stessi sono formule che sentiamo ripetere ogni giorno e che sembrano far parte della stessa ricetta con cui la nostra società impasta noi individui, allenati interiormente a sopportare le necessità e le regole sempre più stringenti della macchina capitalista”.
Sicché, allo stress del lavoro asfissiante e asfittico opponiamo i trattamenti ayuverdici, ai ritmi insostenibili delle città lo yoga, all’ingiustizia degli stipendi e alla competizione nei rapporti sociali la mindfulness. Cerotti esistenziali a buon mercato per sopravvivere senza lagnarsi, e continuare ad alimentare la macchina del progresso, in cui è lo stesso mercato a creare il problema e ad offrirci la terapia. Ma se, invece, dagli stereotipi e diktat “obbligati” (che riducono clienti e consumatori a polli allevati “in batteria”), la spiritualità, ormai degradata a faccenda di mercato, e supina a un relativismo cucito su misura, fosse ricondotta di là da noi, nelle pause che ci concediamo da noi stessi, dai nostri obiettivi, dai business plan quotidiani, così da formare una comunione di uomini, animata da generosità e altruismo? Ne guadagneremmo non solo in termini di humanitas.
* giudice
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