di Gabriele Vecchioni
(foto di C. Ricci e G. Vecchioni)
Il Parco Nazionale dei Monti Sibillini è stato istituito nel 1993 e ha un’estensione di più di 70mila ettari su un territorio che abbraccia il confine tra le regioni Umbria e Marche. La catena dei Sibillini è lunga circa 30 km e comprende diverse vette superiori ai 2.000 metri (un’altitudine di tutto rispetto, almeno per gli Appennini): il Monte Vettore (2.476 m) e la cima più elevata delle Marche. Una valle di origine glaciale ospita l’unico lago naturale della regione, il Lago di Pilato, che è anche il più alto (1.940 m) dell’intera catena appenninica.
Dei Sibillini abbiamo trattato in articoli precedenti ed esiste una vasta letteratura relativa alla loro area; qui, il focus è su un aspetto particolare di questi monti, quello fantastico. Prima di analizzare le leggende principali relative ai Sibillini, una breve presentazione, per rimarcare il rapporto – che inizia da lontano (nel tempo) – dei Monti Sibillini con la letteratura, anche perché «sembra proprio di stare in un altro mondo, popolato sia dalle streghe sia dai santi che vivono nelle leggende o nelle chiese che decorano il paesaggio (L. Carra, 1989)»
I Sibillini e la letteratura. Il poeta Giacomo Leopardi, cui si deve la definizione di “monti azzurri” data a questi rilievi, ha, con pochi, intensi versi, ben descritto l’atmosfera “magica” dei Sibillini: «E che pensieri immensi, che dolci sogni mi spirò la vista di quel lontano mar, quei monti azzurri, che di qua scopro, e che varcare un giorno io mi pensava, arcani mondi, arcana felicità fingendo al viver mio! (Le Ricordanze, 1829)».
Prima di lui, però, altri letterati avevano preso spunto da queste lande misteriose per le loro opere. Due autori in particolare meritano la nostra attenzione. Il primo è Antoine de La Sale, cavaliere al servizio dei potenti d’Anjou (italianizzato in D’Angiò) che, nel sec. XV, compì un viaggio dalle nostre parti, alla scoperta del fantastico Paradis de le Reine Sibylle, compiendo l’ascensione al Monte Sibilla; il resoconto della spedizione fu scritto 17 anni dopo la visita, con una minuziosa descrizione del percorso. L’altro autore, contemporaneo del precedente, è Andrea da Barberino, autore di un romanzo cavalleresco in prosa di otto libri, il Guerrìn Meschino, ambientato all’epoca di Carlo Magno. La storia del Barberino è. in sostanza, la cronaca di una ricerca; nel quinto libro (o capitolo) essa è ambientata nelle nostre zone e narra del soggiorno del cavaliere nel fantastico Regno della Sibilla.
Una delle tappe dell’itinerario del Guerino è a Pian Perduto, dalle parti di Castelluccio di Norcia. E proprio Pian Perduto è la location di un’altra opera letteraria. Ce ne parla l’amico Franco Laganà in un interessante articolo di qualche anno fa: «Il Pian Perduto non è stato solo un crocevia di cavalieri erranti alla ricerca della Sibilla, ma anche il teatro di una battaglia avvenuta realmente il 20 luglio 1522 tra Norcia e Visso, immortalata nel poemetto “La battaglia del Pian Perduto” scritto ai primi del ‘600 in ottava rima da Berrettaccia di Vallinfante, spudoratamente di parte vissana, uno di quei pastori-poeti famosi per la loro capacità di recitare a memoria interi poemi come il “Guerrìn Meschino”, l’ “Orlando Furioso” e “La Gerusalemme liberata”».
La narrazione del fatto guerresco esula dagli scopi dell’articolo; ricordiamo solo che lo scontro si risolse a favore dei vissani, aiutati da sodali giunti da Montemonaco, Montegallo e Montefortino: un cippo (ancora in loco) segna il “nuovo” confine dei pascoli; la pace raggiunta tra i contendenti fu sancita presso la chiesetta – recentemente restaurata dopo i danni del sisma del 2016-17 – della Madonna della Cona, a Forca di Gualdo.
Nel segno del mistero. Abbiamo già disquisito, in precedenti articoli, sull’atmosfera di mistero che, nel tempo, ha accompagnato i Sibillini. Fin dall’epoca medievale, questi Monti hanno avuto fama di essere sede di eventi non sempre spiegabili (un mistero forse legato ai venti impetuosi che battono le cime, alle nebbie di fondovalle e alle solitudini dei suoi vasti pianori), attirando personaggi fuori del comune sentire e ispirando poeti.
Nell’area esistono luoghi dalla toponomastica inquietante: Pizzo del Diavolo (contrapposto alla Cima del Redentore), Pian Perduto (legato agli episodi di conflitti precedentemente trattati), l’Infernaccio (orrido – in senso geografico – scavato dalle acque del fiume Tenna tra i monti Priora e Sibilla), il Malpasso e altri; come abbiamo visto, anche Giacomo Leopardi scriveva di «arcani mondi», a rimarcare l’atmosfera oscura di questi monti. Come vedremo, ad essi sono associati personaggi leggendari come i negromanti del Lago di Pilano, la Maga Alcina, il Guerrìn Meschino, le Fate…).
Il nome stesso, derivato dal Monte Sibilla, un aspro rilievo che supera di poco i duemila metri di altitudine, è ancora avvolto nell’incertezza: le ipotesi sono ben tre. La prima, quella più accreditata, fa derivare l’oronimo dalla presenza, in una grotta sotto la cima del rilievo, di una profetessa, la Sibilla; la seconda teoria vuole che il nome del monte derivi da quello della Magna Mater, Cibèle, divinità orientale aggregata dai Romani al proprio pantheon; infine, una terza ipotesi lega il nome ai Sabelli, popoli di etnìa osco-umbra, appartenenti ad antiche tribù italiche qui stanziate. A proposito del personaggio, ricordiamo qui le appassionate parole a lei dedicate (1930) dal belga Fernand Desonay: «Je songe à la Sibylle… Sous la couronne des rochers, voici la déesse… inspiratrice nostalgique du plus beau des songes humaines…».
Ma vediamo quali sono le storie più pregnanti legate a questi monti, quelle che hanno dato loro la fama di “monti leggendari”.
Il Lago di Pilato. Il lago è di origine esogena, per il modellamento del paesaggio dovuto a un antico ghiacciaio, ed è il testimone delle remote glaciazioni che, nel Quaternario, interessarono l’area: è ospitato in un circo glaciale, a ridosso dei sedimenti morenici. È il bacino lacustre più elevato (1.941 m) dell’intera catena appenninica, alimentato dalle acque meteoriche provenienti dalle precipitazioni e dallo scioglimento dei nevai. Il lago è conosciuto anche come “lago ad occhiali” per la forma caratteristica dei due invasi gemelli, che si uniscono nei periodi in cui il volume d’acqua lo permette. L’occhio ametistino del bacino occupa il fondo della conca glaciale, ai piedi di un massiccio cono detritico ed appare all’escursionista all’improvviso, come un’epifania dolomitica. Gli fanno corona pittoresca alcune alture: il Monte Vettore, la Cima del Lago, quella del Redentore e il Pizzo del Diavolo (nel 1551, nella sua Descrittione di tutta Italia il domenicano Leandro degli Alberti lo descrisse come «il stretto Lago intorniato da alte ruppi»).
Il nome gli deriva, tradizionalmente, da quello di Quinto Ponzio Pilato, procuratore romano della Giudea (sec. I), legato alla crocifissione di Gesù Cristo, che consegnò ai carnefici, pur ritenendolo innocente. La storia tramandata fa parte della tradizione occidentale, almeno per quello che riguarda la Passione di Cristo: una volta morto, il corpo del procuratore, sarebbe stato sistemato su un carro trainato da bufali che, arrivati nell’area dei Sibillini, lo fecero cadere nelle acque del lago che, da allora, avrebbe preso il nome col quale è conosciuto ancora oggi.
Ci siamo già occupati di questa storia, «… obiettivamente poco credibile, anche in virtù della poca profondità dell’invaso, ma che è stata tenacemente tramandata nel corso dei secoli, contribuendo ad accrescere la fama del bacino come “lago maledetto”. In realtà, sembra che il nome del lago derivi dal termine latino pila, che indicava un oggetto circolare; Niccolò Peranzoni (sec. XVII) scrisse «pro pilari lacus dictus est Pilatus». Nel tempo, fu scelto il nome più evocativo di lacus Pilati, anche per il fatto che, già da tempo, quello era un luogo dove si recavano i negromanti per effettuare il complesso rito di consacrazione del cosiddetto “libro del comando” («Hic lacus; ille suas extendit frigidus undas/ Quem Necromantes nocte dieque petunt», Francesco Panfilo da San Severino, sec. XVI)».
Per quanto riguarda l’accertata presenza di negromanti sulle rive del Lago di Pilato (la tradizione vuole che ci sia stato anche Cecco d’Ascoli…), sempre Leandro degli Alberti scrisse poi che «Essendo volgata la fama di detto lago che quivi soggiornano i diavoli e danno risposta a che li interroga si mossero già alquanto tempo alcuni uomini di lontano paese et vennero a questi luoghi per consacrare libri scellerati e malvagi al diavolo, per poter ottenere alcuni suoi biasimevoli desideri, cioè di ricchezze, di onori, di arenosi piaceri et simili cose».
Nelle acque del lago vive il chirocefalo del Marchesoni, un piccolo crostaceo con l’esoscheletro di colore rossastro che, forse, è stato associato a presenze diaboliche, contribuendo alla fama del «demoniaco laco» (per i cronisti nel ‘600 c’erano «demoni guizzanti nelle livide acque»).
Chi desiderava dialogare col Diavolo in persona per legittimare il Libro del Comando (in cambio dell’anima…) si poneva su una pietra al centro dei due oculi del Lago e lo “chiamava”. Per descrivere la scena, si potrebbe usare una frase di Edward Bulwer-Lytton
(riciclata da Snoopy nei Peanuts): «Era una notte buia e tempestosa e la pioggia cadeva scura e a rovesci da un cielo di mezzanotte sconvolto dai lampi». Ironia a parte, la pietra esiste ed è conservata a Montemonaco, a Villa Curi, nel Museo della Grotta della Sibilla: è la Gran Pietra, di grosse dimensioni, con incise lettere misteriose, ritrovata proprio nello spazio tra i due bacini del Lago, nel punto in cui, probabilmente, i negromanti effettuavano i riti di consacrazione satanica.
(fine prima parte)
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