di Alessandro Luzi
Nassiriyah, 12 novembre 2003: una città e una data ancora impresse nella memoria collettiva. Un attentato ad una base italiana in Iraq in cui hanno perso la vita 28 persone, di cui 19 italiani e 9 iracheni. Fu un vero e proprio shock per l’Italia. La vicenda ebbe anche un percorso giudiziario, raccontato nel libro del generale Carmelo Burgio “Nassiriyah. Dall’attentato alla ricerca della verità”. Il volume è stato presentato questo pomeriggio all’auditorium San Filippo Neri a Fermo. A moderare l’incontro il giornalista Lucio Biagioni.
«Non è semplice fare la cronaca degli eventi e analizzare quello che è accaduto prima, durante e dopo l’attentato – ha esordito la presidente dell’Ordine degli avvocati di Fermo, Fabiana Screpante -. In questo libro viene ripercorso l’intricato iter giudiziario». «Ho letto questo volume con grande piacere – ha fatto eco il capo procuratore di Fermo, Raffaele Iannella -. Mi hanno colpito molti punti, in particolare gli aspetti umani ed i processi. Qui ci sarebbe molto da dire. Non sono stati presi in considerazione molti aspetti decisivi ai fini delle sentenze». Poi a prendere la parola è stato l’autore Burgio: «Quando ho visto l’attentato mi sono sentito in dovere di relazionare i motivi per cui è avvenuto. Nei primi giorni avevo cercato di capire perché c’erano discrepanze tra ciò che c’era alla base italiana e quello richiesto dallo Stato maggiore. Il capo dei terroristi aveva scelto di attaccare la nostra base perché era la meno difesa. Questo la dice lunga sulle misure ed i procedimenti di sicurezza adottati». Poi una digressione sui militari in guerra: «Non c’è bisogno di idealizzare l’eroismo. Sì, il concetto di patria è importante, ma il soldato pensa prima a salvare il suo piccolo gruppo. Quando si parla di guerra è importante togliere i giudizi di valore morale. Non regge il fatto che noi italiani siamo i buoni e gli altri i cattivi. Sul campo di battaglia ci sono due eserciti che si attaccano a vicenda. Quell’attentato lo abbiamo voluto noi. La storia serve perché dai fatti dobbiamo trarre degli insegnamenti». Il segretario della Camera penale di Fermo, l’avvocato Matteo Restuccia, ha sollevato una questione giuridica: «Quel processo era meglio affrontarlo con la magistratura ordinaria o quella militare? Su questo punto è importante prendere in esame quanto stabilito dalla Corte costituzionale. L’articolo 103 della Costituzione comma 3 recita: “I tribunali militari in tempo di pace hanno giurisdizione soltanto per i reati militari. La definizione di reato miliare non è prevista dalla norma costituzionale, ma demandata alla legge ordinaria“. Riguardo alle sentenze, la Corte d’Appello militare ravvede delle incongruenze in quella emessa in secondo grado. Ciò è confermato dalla Corte di cassazione, secondo cui però gli imputati non potevano discostarsi da un ordine superiore. Ma chi ha dato questi ordini superiori? La domanda è caduta nel vuoto».
In sala, tra le autorità civili e militari, presenti anche il prefetto Edoardo D’Alascio, il sindaco di Fermo, Paolo Calcinaro, e il consigliere regionale Marco Marinangeli. L’incontro è stato organizzato dal comitato fermano di Ipa International Police Association, in collaborazione con l’Ordine degli Avvocati di Fermo. L’appuntamento, patrocinato dal Comune, è stato reso possibile grazie al sostegno di Mastery, del comitato pari opportunità dell’ordine degli avvocati di Fermo e della Camera penale di Fermo.
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