di Giuseppe Fedeli *
Il processo penale tra esigenze di giustizia e ricerca della “verità”
“Bisogna tenere conto che la giustizia ha più facce. Non sempre quello che noi riteniamo sia il giusto per noi corrisponde al giusto per la società” (A. Di Mario).
Al giorno d’oggi, una malintesa vox populi, diffusa da social e internauti delle più diverse razze -opinioni – estrazioni sociali – condizioni trasforma, sovente, in verità irrefragabile la tesi che i media (tv compresa) difendono, al netto della sentenza emessa in dibattimento ‘in nome del proprio italiano’. Abbiamo già parlato nelle precedenti riflessioni dell’influenza nefasta di certo giornalismo (ergo di ‘investigazioni’, che non rispondono alle regole del processo penale), non soltanto sull’opinione pubblica, ma sull’iter dei processi, che si celebrano nelle aule di Giustizia. Al punto che l’indagato, sul quale sono puntati i riflettori del folto sottobosco di criminologi, opinion makers e soloni dell’ultima ora, sarà reo (= colpevole) per sempre, anche se assolto in via definitiva: dunque, sin dalla divulgazione urbi et orbi della presunta notitia criminis, non importa attraverso quale mezzo avvenga la diffusione. Ora, all’operatore giuridicamente educato non possono non sorgere dei dubbi, che vanno oltre il perimetro della fenomenologia dianzi illustrata. Condannati senza attenuanti i processi mediatici, è bene muovere dal principio della presunzione di innocenza, che è il pilastro su cui si fonda la nostra civiltà giuridica, e che deve improntare di sé ogni pronunciamento da parte dei Giudicanti. Alle volte, però, è legittimo domandarsi se certe assoluzioni obbediscano all’art. 530/2 CPP, vale a dire discendano da quella che, in gergo popolare, dicesi ‘insufficienza di prove’ (secondo il principio di responsabilità, basato sulla regola, per cui il soggetto va condannato quando le prove accertino la sua colpevolezza ‘oltre ogni ragionevole dubbio’). Talune vicende rimangono, infatti, talmente impresse nel nostro immaginario, da tradursi in segnali di ‘inquietudine’ nei consociati: ossia, da far dubitare se la verità sia quella processuale, a prescindere dal verdetto di assoluzione in cui sfoci l’agone giudiziale. Quando indizi, pur non ‘ritualmente’ acquisiti, si affastellano gli uni sugli altri, fino a delineare un quadro non dico preciso, ma tale da suscitare perplessità sulla innocenza (o, meglio, sulla non colpevolezza) di chi siede sul banco degli imputati, si resta disorientati. Questa visione è forse figlia della tendenza al giustizialismo, che cerca la catarsi attraverso la messa alla gogna del capro espiatorio?… di quel diritto naturale, che si pone al di sopra di ogni ‘decisione umana’? A mio avviso, è una “proiezione” sull’altro-da-sé: alla continua ricerca della verità, inattingibile nel suo nucleo fenomenico, e cioè mediante l’uso degli strumenti umani, l’uomo sa, tuttavia, che essa verità è sempre ‘relativa’.
* giudice
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati