servizio di Laura Cutini
I percorsi impossibili o che sembrano tali come, quello fra l’ex brigatista Franco Bonisoli e il figlio dell’appuntato Ricci, Giovanni, possono essere realtà. La storia di una riconciliazione nata da una fatto di sangue che scosse l’Italia degli anni ’70, il sequestro di Aldo Moro, come esempio di perdono e riconciliazione, da perseguire e che possa ispirare giovani e non, sulla strada della pace. Una serata emozionante ed ispirante ieri sera a Montegranaro. «Incontrarsi e riconciliarsi significa trasformare il senso di colpa – dice Bonisoli nel suo intervento – in senso di responsabilità».
Possono sembrare “Percorsi Im-possibili” ma sulla strada del perdono e della riconciliazione succede anche questo, oltre il corso della giustizia ordinaria. Accade che avvengano incontri incredibili ed emozionanti come quello di ieri sera presso il teatro Officina delle Arti a Montegranaro, fra il figlio dell’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci (originario di Staffolo, ndr), caduto in via Fani come membro della scorta di Aldo Moro, e Franco Bonisoli ex militante attivo delle “Brigate Rosse”. Un’iniziativa alla quale hanno partecipato le massime autorità cittadine e provinciali, organizzata dai giovani del gruppo di coordinamento pastorale giovanile di Presenti, fra gli altri, oltre al sindaco Endrio Ubaldi e all’amministrazione comunale, l’arcivescovo di Fermo, Rocco Pennacchio e il comandante dei carabinieri della locale stazione, Lorenzo Santarelli. «Abbiamo deciso di favorire queste iniziative per sensibilizzare i giovani – afferma il portavoce del gruppo – per restituire speranza al mondo. Franco e Giovanni ci portano un grande insegnamento: la risposta al male può essere solo il bene e l’amore».
Il 16 marzo 1978, infatti, la vita dei due personaggi si intreccia nell’attentato di via Fani, quando venne rapito l’onorevole Moro e uccisa la sua scorta, della quale faceva parte il papà di Giovanni. Per anni le foto di quel corpo martoriato da sette colpi di pistola, hanno accompagnato la vita di un figlio, dodicenne incapace allora di elaborare un trauma così grande. Il tempo però è stato la chiave di volta che ha permesso oltre ogni aspettativa, di superare il dolore e soprattutto la rabbia, e permettere che carnefici e vittime potessero stringersi la mano e sedere allo stesso tavolo, quello del confronto e della riconciliazione. Il percorso di “giustizia riparativa”, arrivato dopo il corso di quella ordinaria con cui Bonisoli ha scontato tutta la pena, grazie alle nuove leggi e alla buona condotta, (condannato a 4 ergastoli e svariati anni di carcere, per numerosi attentati, da diversi tribunali italiani) gli ha consentito una sorta di espiazione potendo ritessere quelle relazioni sociali spezzate dal compimento dei reati.
«Sono stato un brigatista, un militante delle Brigate Rosse – esordisce Franco Bonisoli – nel 1977 fui arrestato e portato in un carcere di massima sicurezza. Nonostante questo, mi sono indurito sempre di più caratterialmente. La chiusura di ogni contatto o relazione sociale verso l’esterno, favoriva la mia rabbia e fomentava le idee di ribellione. Dopo diversi anni però sono andato in crisi. Fu il direttore del carcere di Torino ai tempi, che concesse a me ed ai miei compagni per la prima volta, un’apertura verso il mondo. Lì sono crollate le difese, la rabbia è scomparsa, ho capito che il mondo fuori stava cambiando e che il sogno rivoluzionario doveva finire. E’ stato molto più difficile uscirne che entrarci. Iniziammo lo sciopero della fame in carcere e da lì cambiò tutto». Sì perché dopo la visita in carcere di Marco Pannella, per Franco, insieme ai suoi compagni, si aprirono nuove possibilità, furono varate nuove leggi e, grazie alla buona condotta, scontando tutta la pena ridotta a 22 anni e mezzo, riuscì a ritornare nella società. Alla fine del corso della giustizia ordinaria, Franco ha deciso di incontrare i parenti delle vittime, tra cui Giovanni Ricci. «Sentivo che era importante creare questa apertura. Desideravo questo dialogo. Mi ha colpito molto – racconta l’ex brigatista – il fatto che non solo abbiano accettato di incontrarmi, ma abbiano voluto continuare a farlo fino addirittura a diventare amici. Se ti incammini in una strada e ci credi fino in fondo, ne esce sempre qualcosa di miracoloso. Il male esiste eccome, ma sulla strada del bene non esiste limite».
Giovanni dicevamo, aveva appena 12 anni quando fu ucciso suo padre. Le foto sui giornali di quel corpo devastato dai colpi, lo accompagneranno per tanti anni, prima di una completa elaborazione del lutto oltre alla rabbia e all’odio nei confronti degli assassini di suo padre, finché non nasce suo figlio e comprende che l’unica via per uscire dal dolore può essere la riconciliazione con quel passato. «Ci siamo incontrati presso una struttura religiosa, ma al contrario di quanto mi aspettassi – racconta Giovanni Ricci – mi sono trovato davanti delle persone che mi hanno colpito, soprattutto Morucci che fu l’assassino di mio padre. Lì ho compreso. Dissi loro che stavano portando sicuramente una croce molto più grande della mia. Non erano mostri, in realtà, come li avevo immaginati, ma uomini come noi e volevano incontrarci. Erano persone che avevano deciso di mettersi in discussione nonostante potessero non farlo, dopo aver scontato la pena con la giustizia ordinaria. Ce ne siamo dette tante – ammette – ma alla fine ci siamo riconciliati e oggi siamo amici. Da quel giorno sono riuscito a recuperare la mia esistenza, a raccontare di mio padre ed a rendergli giustizia. Questa storia insegna che se c’è la volontà di cambiare, è sempre possibile farlo».
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