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«Violenza di genere: prendiamoci cura delle nuove generazioni» L’intervista a Meri Marziali

DONNE - Sindaca di Monterubbiano, per 5 anni presidente della Commissione Pari Opportunità della Regione Marche, esperta nel contrasto alle discriminazioni di genere, da agosto 2024 Meri Marziali è anche componente dell’esecutivo della Conferenza nazionale delle donne democratiche.

Meri Marziali

di Alessandro Luzi

«Violenza di genere: prendiamoci cura delle nuove generazioni». E’ il suggerimento, meglio l’appello, di Meri Marziali, sindaca di Monterubbiano e già presidente della Commissione regionale Pari Opportunità, sul delicato e, ahinoi, sempre più attuale tema della violenza sulle donne, con l’approssimarsi della Giornata internazionale proprio contro la violenza di genere.

«La violenza degli uomini sulle donne, alla cui base sono radicati misoginia, sessismo, discriminazione e un insostenibile divario di genere in termini sociali, lavorativi, salariali, culturali, rappresenta una tra le più gravi e profonde violazioni dei diritti umani a livello globale. I dati del Ministero dell’Interno presentati il 10 novembre 2024 – sottolinea Marziali – raccontano di 97 vittime donne, di cui 83 uccise in ambito familiare/affettivo; di queste, 51 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner. Nello stesso rapporto, nell’analizzare i dati si afferma che “il fenomeno della violenza di genere è stato oggetto di una lenta evoluzione attraverso interventi normativi mirati che, nel corso degli anni hanno gettato le basi per il definitivo superamento di una determinata concezione culturale che relegava la donna ad una posizione di subordinazione nei confronti dell’uomo, frutto di una morale arcaica e di un immaginario patriarcale protrattosi sino al secolo scorso, i cui retaggi sono ancora presenti nell’attuale tessuto sociale”.

Partiamo da questi dati e dall’analisi del Viminale per approfondire insieme a Meri Marziali il tema, complesso quanto straziante, della violenza di genere.

Sindaca di Monterubbiano, per 5 anni presidente della Commissione Pari Opportunità della Regione Marche, esperta nel contrasto alle discriminazioni di genere, da agosto 2024 Meri Marziali è anche componente dell’esecutivo della Conferenza nazionale delle donne democratiche.

Pochi giorni fa la tragica scomparsa di Aurora, una ragazzina di tredici anni di Piacenza. Un volo dal settimo piano. Il fidanzato è in stato di fermo, la giustizia è al lavoro. Come è possibile spiegare questi episodi che coinvolgono vittime minorenni?

«Parto proprio dall’analisi che veniva riportata a commento dei dati. Più di 90 donne uccise in un anno. Una ogni tre giorni. Una mattanza che affonda le proprie radici nella cultura del nostro Paese. La morte di Aurora a Piacenza, tredici anni, è una tragedia che coinvolge giovanissime generazioni. Poniamoci domande profonde su una società che, ancora oggi, fallisce nel proteggere le donne, anche le più giovani. Provare a spiegare questi terribili fatti di cronaca è veramente difficile, occorrerebbe spiegare che alla radice di tali episodi c’è forse ancora un groviglio di eredità culturali, che toccano un modo arcaico ed impari di concepire i rapporti tra uomini e donne, modi che sembrano resistere all’evoluzione. Gli uomini, soprattutto i giovani uomini che oggi si armano, maltrattano, aggrediscono ed uccidono perché magari non accettando un rifiuto, un abbandono o nella convinzione di essere stati traditi, nulla sanno di tempi passati, di quelli che venivano chiamati “i delitti a causa di onore”, contemplati nel nostro codice penale sino al 1981, che attenuavano la pena per chi uccideva credendo di salvare l’onore proprio o della famiglia. Questi giovanissimi non erano nati o quasi, eppure agiscono oggi come se quell’idea distorta di onore, evidentemente respirata vivendo, li legittimasse ancora. Non erano nati neppure quando il Codice Civile non riconosceva alle donne all’interno del matrimonio pari diritti e doveri rispetto ai mariti sino alla riforma del diritto di famiglia del 1975. Questo per dire che anche le giovanissime vittime di oggi, troppo spesso protagoniste di episodi di violenza o nel peggiore dei casi di femminicidio, sono figlie di un tempo in cui il ruolo sociale della donna si è sicuramente evoluto (anche se molto c’è ancora da fare) e non avevano ragione di porsi il problema di leggi arcaiche che hanno attraversato anni passati nel nostro Paese, leggi eliminate da altre più eque e rispettose delle pari dignità. Purtroppo però quel codice troppo spesso sopravvive a sé stesso nella mentalità e nella cultura patriarcale in cui la società vive».

Per contrastare la violenza di genere quanto allora è importante investire nella prevenzione?

«Direi che è fondamentale. La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza degli uomini contro le donne fornisce un’occasione importante alle istituzioni di qualunque livello e a tutte le realtà sia per organizzare attività volte a sensibilizzare l’opinione pubblica ma anche per individuare sempre migliori strategie finalizzate allo sradicamento della cultura sottostante a questi eventi. Occorrono provvedimenti strutturali, previsti sia nella Convenzione di Istanbul che nella normativa nazionale, che incidano profondamente nella cultura delle nuove generazioni, attraverso un’azione positiva volta a sviluppare nella formazione degli studenti il rispetto dei principi di eguaglianza, pari opportunità, non discriminazione. Per il raggiungimento di questi obiettivi è necessario promuovere nel sistema educativo processi formativi che ricomprendano lo sviluppo del rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, in particolare a partire dalla parità tra uomini e donne, insieme all’esercizio del rispetto delle differenze quale espressione del diritto-dovere, nell’ambito dei principi e valori costituzionali e nel quadro della crescita armonica della persona. Tra le attività didattiche delle scuole di ogni ordine e grado dovrebbero essere introdotti percorsi educativi (Educazione all’affettività e al rispetto delle differenze) volti all’eliminazione degli stereotipi di genere che ostacolano di fatto l’esercizio paritario dei diritti degli uomini e delle donne, alla valorizzazione delle differenze, ivi comprese quelle legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere, alla prevenzione dei conflitti e alla loro risoluzione in modo pacifico. Questa formazione dovrebbe essere strutturale, omogenea su tutto il territorio e non solo affidata alla sensibilità del dirigente scolastico o del docente. Durante l’impegno istituzionale della Crpo abbiamo investito moltissimo per un lavoro nelle scuole, nelle università, tra i cittadini e con le altre istituzioni per produrre quel cambiamento culturale di reale contrapposizione a episodi di violenza. Abbiamo investito molto in quella che viene chiamata prevenzione, cercando di trasmettere ai giovani il rispetto e il valore delle differenze, dando loro strumenti per un’affettività consapevole, per rapportarsi con l’altro. Senza tralasciare il complesso lavoro svolto sul linguaggio. Contenuti che, ripeto, dovrebbero diventare parte integrante del sistema scolastico e di percorsi formativi e di sensibilizzazione per il corpo docente».

Può indicarci qualche dato?

«Certo. Lo scorso 6 novembre la Regione Marche ha approvato il Rapporto annuale sulla violenza di genere. Nel 2023 nella nostra regione 748 donne si sono rivolte ai Centri Antiviolenza, 43 in più rispetto al dato relativo al 2022 (705), di cui 50 nella provincia di Fermo. Dal 2012 al 2023 (escluso il periodo del Covid) gli accessi ai CaV hanno avuto sostanzialmente un trend crescente. Il netto aumento riscontrato dal 2021 al 2023 potrebbe essere riconducibile non necessariamente ad un aumento del fenomeno ma ad un’emersione del fabbisogno delle donne di chiedere aiuto, emersione favorita da una diffusione più capillare dei CaV, con l’apertura di nuovi sportelli, nonché da una maggiore promozione e visibilità dei servizi offerti. I dati ci confermano che la violenza procurata dal marito, dal convivente o dall’ex coniuge è la più diffusa in assoluto. In moltissimi casi al dramma della condizione personale si aggiunge quello della tutela dei figli, soprattutto minori, spesso testimoni delle violenze. Delle 69 persone uccise in Italia dal partner nel 2023, 64 (93%) sono donne. Tra questi 64 femminicidi, 4 femminicidi sono stati commessi nelle Marche. Anche per l’anno 2023 il profilo della donna vittima di violenza che si rivolge al CaV è una donna con un’età compresa tra 40 e 49 anni (31,4%), con stato civile di coniugata (39,8%), di origine italiana (73%), con un titolo di studio diploma di istruzione secondaria di II grado (diploma di maturità) (56,0%), con occupazione stabile (43,5%) e residente principalmente nella stessa provincia del CaV di riferimento (90,1%). Questi dati riconfermano come la violenza contro le donne sia un fenomeno trasversale rispetto alla diversa condizione culturale e non necessariamente da relegare (come si è tentato spesso di fare) a situazioni di disagio sociale. Gli stessi dati confermano come il fenomeno insista significativamente sulla sfera domestica. La violenza non avviene da parte di una persona estranea ma dal coniuge, convivente o ex e dunque all’interno di una relazione affettiva. La difficoltà di denunciare sta proprio in questo aspetto. Non è un caso che in questi anni sono nati neologismi come violenza domestica, femminicidio. Sono parole nuove emblematiche chiavi di lettura della nostra società che soprattutto ci hanno permesso di dare nome a fenomeni che per molto tempo sono stati derubricati solo a fatti di cronaca».

Si potrebbe chiamare benissimo la strage delle donne perché il dato viene aggiornato con un ritmo che toglie il fiato. 

«È così. Purtroppo non esiste giorno in cui le notizie di cronaca non ci raccontano di donne vittime di episodi di violenza o nel peggiore dei casi uccise dagli uomini che dicevano di amarle. Settanta volte su cento, quando la vittima di un omicidio è donna, alla mano che uccide corrisponde la faccia di un uomo conosciuto: un familiare, un partner, un ex che ha confuso l’amore e il possesso. Muoiono per mano degli uomini che dicevano di amarle come se si potesse coniugare il verbo amare al singolare, senza rispetto per la persona amata. Una mattanza che affonda le sue radici nella cultura del nostro paese. I dati che vengono presentati ogni anno sono solo la punta dell’iceberg del fenomeno della violenza contro le donne.  Il 90% dei casi di percosse, maltrattamenti, stupro e stalking resta sconosciuto. Spesso il femminicidio è l’ultima tappa di una serie di vessazioni e violenze consumate all’interno delle mura domestiche o comunque di una relazione, tutte cose che configurano reati che vanno dai maltrattamenti allo stalking.  La punta di un iceberg di un’oppressione fisica e morale che poggia solidamente su una cultura e un contesto sociale in cui le donne sono ancora subalterne da troppi punti di vista. Una società intrisa di cultura patriarcale in cui la violenza sulle donne viene ancora normalizzata, banalizzata. Anche per questo prima di prendere piena coscienza degli abusi subiti e trovare il modo di allontanarsi dal maltrattante, passano spesso anni: per il 39.8% delle donne sono trascorsi più di 5 anni dai primi episodi di violenza subita, per il 34% da 1 a 5 anni, per il 14,8% da 6 mesi ad un anno e per il 7.5% da meno di 6 mesi. Un lasso di tempo che va diminuendo ma per motivi tutt’altro che rassicuranti. Oggi, come dicevo prima, le nuove generazioni sono più consapevoli ed informate e sono circondate da una rete antiviolenza più sviluppata, che consente di far emergere prima il fenomeno. Ma è anche vero che oggi la violenza maschile si scatena e cresce in modo sempre più duro e veloce: la nuova generazione di uomini è violenta in modo più intenso, rapido e grave in termini di rischio. E le recenti tragedie ne sono la conferma. Anche tra i più giovani si perpetua un modello di relazioni impari, confermato da oltre 100 casi di femminicidio all’anno dovuti quasi sempre a uomini che non accettano la separazione. Così la dipendenza maschile si trasforma in violenza agita. È vero certamente che tanti giovani hanno modificato il loro approccio alle relazioni affettive, padri più vicini ai figli, uomini che accantonano i ruoli stereotipati, non sono ancora il modello trainante e consolidato, bisogna lavorare ancora molto per il cambiamento».

È evidente che le misure attivate non sono sufficienti ad abbassare i numeri. Insieme all’educazione all’affettività e al rispetto delle differenze nelle scuole, di cosa altro c’è bisogno?

«Prima di tutto bisogna riconoscere il problema. Parlare di violenza sulle donne significa innanzitutto far esistere il problema. Sappiamo che il silenzio non è mai neutro e per molto tempo la violenza sulle donne è stato un problema volutamente senza nome. Volutamente perché ci saremmo dovuti interrogare sul sistema culturale patriarcale che ne è l’origine. Quando manca la definizione di un problema si rischia anche di non essere in grado di affrontarlo o di affrontarlo in un modo non corretto: quello che è successo nel nostro Paese. Si è intervenuti esclusivamente sugli effetti senza mettere in prospettiva origini e radici. Se pensiamo agli episodi di cronaca che ci vengono raccontati dai media troviamo sempre una morbosità assoluta per i fatti, per la vita delle vittime che passa sotto una lente di ingrandimento mostrando però un totale disinteresse per le cause. Le norme contro il femminicidio ci sono. Serve applicarle meglio. E ogni istituzione che è parte di quella rete di protezione deve applicarle più e meglio. Dalla denuncia di una donna sino ai provvedimenti necessari a partire dalle misure restrittive come nel caso di Concetta, al controllo del funzionamento di quelle misure. Come occorrono maggiori risorse da destinare alla rete dei Centri antiviolenza e delle case rifugio, al reddito di libertà che consente alle donne di allontanarsi e di rendersi autonome da relazioni violente nonché al rafforzamento dei percorsi di recupero per gli uomini maltrattanti».

Qual è secondo lei il ruolo delle istituzioni e degli amministratori nel contrasto alla violenza di genere?

«Gli amministratori stanno già facendo la loro parte nelle reti territoriali antiviolenza. Uno strumento attraverso cui tutti i servizi preposti alla tutela e al supporto delle donne vittime di violenza siano in costante dialogo tra loro, si conoscano e si riconoscano nelle reciproche specificità, acquisendo la consapevolezza di far parte di un puzzle in cui ognuno mette a disposizione un tassello e in cui tutti insieme possono veramente divenire una rete di protezione. È fondamentale che le istituzioni collaborino in rete per approntare soluzioni possibili e accompagnare tale percorso. Il contrasto alla violenza sulle donne richiede infatti la mobilitazione di una pluralità di strumenti e di attori sociali che affrontino il problema da più punti di vista: giuridico, economico, psicologico, culturale e sociale. Sono molto orgogliosa di aver contribuito, durante il mio mandato di presidente della CrPO, a costruire e formalizzare nel 2017 la rete territoriale antiviolenza della provincia di Fermo in collaborazione con l’allora prefetto, Mara Di Lullo.  Quel protocollo era stato il punto di arrivo di un anno di lavoro in cui ogni istituzione coinvolta aveva operato per costruire uno strumento importantissimo per il nostro territorio. Ne vado particolarmente orgogliosa perché durante gli interventi pubblici da presidente molto spesso mi trovavo a dire alle donne che la violenza domestica non era un fatto privato né un destino ineluttabile e che avrebbero potuto denunciarla rivolgendosi ai CaV. In quelle occasioni mi ero spesso chiesta se dopo la denuncia la donna avrebbe trovato una reale rete di protezione fatta non solo dai CaV ma da tutte le istituzioni, comprese le amministrazioni, e da tutti i servizi pubblici a cui la donna avrebbe potuto affidarsi. Attualmente il lavoro di quel protocollo di rete continua il suo proprio prezioso contributo con il coordinamento del prefetto di Fermo in collaborazione con l’Ambito Sociale XIX e di molti altri attori territoriali che ne sono entrati a farne parte, in primis le scuole. Accanto alla rete territoriale, gli amministratori hanno il dovere di organizzare iniziative e progetti che possano portare a una sensibilizzazione sul tema soprattutto coinvolgendo le nuove generazioni. Nel mio Comune abbiamo organizzato molte progettualità coinvolgendo la scuola e la dirigente scolastica da sempre molto attenta al tema. L’Istituto Scolastico Comprensivo “Pagani” di Monterubbiano è stato tra i primi ad aderire al protocollo della rete territoriale antiviolenza, questo ci ha permesso di lavorare sinergicamente insieme alle ragazze e ai ragazzi per dare loro strumenti che possano veramente cambiare alla radice la cultura della prevaricazione e della violenza. Sul tema dei femminicidi bisognerebbe trovare un’unità di intenti di tutte le forza politiche. Il Pd ha più volte dichiarato la sua disponibilità a confrontarsi con la maggioranza formulando diverse proposte, in più occasioni illustrate dalla segretaria Elly Schlein. Fondamentale è che le misure del governo Meloni non siano misure spot che inseguono solo le tragedie ma che dimostrino finalmente come siano necessari interventi strutturali sulla prevenzione e non solo con risposte di tipo penale».

 

 

 


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