di Maurizio Petrocchi *
La fine della dinastia Assad. E ora cosa succede? L’8 dicembre 2024 ha segnato momento watershed nella storia del Medio Oriente contemporaneo con il collasso del regime di Bashar al-Assad in Siria dopo appena undici giorni di offensiva militare. Tale crollo non pone fine soltanto a oltre mezzo secolo di dominio autoritario della famiglia Assad, avviato dal colpo di Stato di Hafez al-Assad nel 1970, ma ridisegna in profondità l’assetto geopolitico della regione, aprendo scenari inediti che meritano un’analisi articolata e approfondita. L’apparente solidità su cui si basava il potere di Damasco si è rivelata illusoria dinanzi ad una combinazione di fattori destabilizzanti. Da un lato, decenni di corruzione sistemica, politiche economiche clientelari e amministrazione inefficiente avevano eroso il tessuto sociale e istituzionale del Paese. Dall’altro, la dipendenza dalle potenze esterne – tra cui Russia e Iran – aveva consentito al regime di sopravvivere alla guerra civile iniziata nel 2011, celando tuttavia vulnerabilità profonde. Gli interventi militari stranieri, per quanto cruciali, hanno finito per mascherare la debolezza intrinseca delle forze armate siriane e l’incapacità del regime di garantire il consenso interno su base duratura. Quando la pressione militare coordinata si è intensificata, il sistema di potere ha mostrato la sua fragilità. La rapida caduta di nodi strategici come Aleppo, l’epilogo della battaglia di Hama e l’implosione delle difese a Homs sono stati segnali inequivocabili di un meccanismo ormai irrimediabilmente compromesso.
L’assenza di un intervento risolutivo da parte di Mosca – vincolata dal conflitto in Ucraina e dalla conseguente riduzione della propria capacità di proiezione di potenza – e l’indebolimento dell’Iran, gravato dalle sanzioni internazionali e dalle tensioni con Israele, hanno privato Damasco dei tradizionali pilastri esterni. All’interno della Siria, la lealtà storica di settori chiave come la comunità alawita si è affievolita sotto il peso della corruzione e della stanchezza bellica, mentre le forze armate apparivano demoralizzate, sfilacciate, incapaci di coordinare una difesa efficace. Il vuoto di potere lasciato dal regime di Assad ha aperto la strada a una riconfigurazione strategica degli equilibri regionali. L’indebolimento o la fine dell’asse iraniano e il ridimensionamento dell’influenza russo-siriana hanno innescato dinamiche nuove nell’arena mediorientale. La Turchia, che ha mantenuto un sostegno costante all’opposizione siriana anche quando altri attori si erano ritirati, emerge ora come pivot fondamentale per il futuro assetto del Paese. Al contempo, Israele, l’Arabia Saudita e gli altri attori regionali stanno riconsiderando le proprie strategie, valutando come trarre vantaggio dalla dissoluzione di un sistema che, per decenni, aveva costituito un nodo cruciale negli equilibri di potere. Tra i fenomeni più significativi della fase di transizione post-Assad vi è la trasformazione di Hayat Tahrir al-Sham (HTS). Da gruppo jihadista radicale, HTS ha perseguito una strategia di rebranding politico, presentandosi come interlocutore pragmatico e «moderato», in grado di guidare un processo di riconfigurazione istituzionale potenzialmente inclusivo.
La figura di Abu Mohammed al-Jolani, leader di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), incarna emblematicamente la capacità dei movimenti islamisti di ridefinire la propria identità ideologica, rimodulare le pratiche organizzative e adottare strategie di legittimazione politico-sociale in un contesto post-autoritario. Dopo aver esteso il proprio controllo su ampie porzioni del territorio siriano, HTS ha infatti assunto un profilo inedito, dichiarando esplicitamente la volontà di tutelare le minoranze etniche e religiose, riconoscendole quali interlocutori legittimi di un futuro ordine nazionale. Le dichiarazioni del leader di HTS, improntate a un linguaggio più aperto e conciliatorio, presentano la «diversità come una forza» e invitano a rispettare il tessuto multiconfessionale del Paese. A sostegno di tali affermazioni, HTS ha introdotto linee guida volte a evitare intimidazioni e violenze contro i gruppi minoritari, ha restituito beni confiscati a proprietari cristiani e istituito una Direzione per gli Affari delle Minoranze all’interno del proprio governo di salvezza. La promozione del diritto delle comunità religiose a celebrare le proprie festività costituisce un ulteriore segnale di questa nuova postura, tesa a consolidare la propria immagine quale forza politica moderata e potenzialmente inclusiva. Tale metamorfosi, tuttavia, non manca di suscitare scetticismo. In passato, HTS si è resa responsabile di abusi e discriminazioni, sollevando il timore che le recenti aperture possano avere motivazioni strumentali, finalizzate a conquistare consensi interni e legittimità internazionale. Spetta dunque agli osservatori esterni e ai difensori dei diritti umani valutare se questa narrazione corrisponda a una reale riforma strutturale o se le promesse attuali si tradurranno in una prassi durevole e coerente.
* docente di storia del giornalismo e media digitali all’università di Macerata, storico ed esperto in conflitti, violenza, politica e terrorismo
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