di Gabriele Vecchioni
Si avvicinano le festività natalizie. Per l’occasione, conosciamo meglio le piante-simbolo di questa tradizione, ripercorrendo la loro storia sociale nel corso del tempo: il rapporto tra queste piante e le festività natalizie e di fine anno è legato a narrazioni antichissime, arrivate fino ai giorni nostri e interpretate come tradizionali. Si caratterizzano per alcune particolarità, ben descritte dall’insigne botanico Aldo Pavari che, nel 1957, scrisse (riferendosi all’agrifoglio): «… con le loro belle foglie lucenti e le bacche scarlatte, danno una sensazione di lieto vigore».
Una premessa. L’articolo non vuole tracciare una storia della festività natalizia, così cara alla popolazione per le implicazioni religiose (si celebra la manifestazione e l’incarnazione di Cristo) o sociali (sempre più, la Festa sta diventando una “sagra dell’effimero”, tra cene, panettoni e scambio di doni, più o meno sentiìti). In queste poche righe si vogliono solo analizzare le piante-simbolo che, tradizionalmente, vengono associate al Natale (e al Capodanno) nel mondo occidentale (o occidentalizzato).
Le piante delle quali andremo ad approfondire (brevemente) l’importanza e l’utilizzazione nella società sono quattro: l’abete rosso, l’agrifoglio, la stella di Natale e il vischio.
Cominciamo con l’abete rosso (Abies picea), l’albero che ospitiamo nelle nostre case in occasione delle festività di fine-anno (spesso, sostituendolo con un simulacro sintetico, un oggetto di plastica, come tante altre cose della nostra vita moderna). È il peccio, una pianta abbastanza comune nell’Italia settentrionale, meno diffusa nelle nostre zone; il nome gli deriva da “pece” (pix, picis in latino) perché la pianta essuda una grande quantità di resina.
L’abete rosso è una conifera e appartiene alla famiglia botanica delle Pinacee. L’abete si riconosce dalle foglie aghiformi ma piatte e inserite direttamente sul ramo; nel pino sono invece verticillate, cioè riunite in mazzetti. Il frutto conico (la pigna) è allungato e pendulo; la corteccia del tronco è rossastra e dà il nome (italiano) alla pianta.
Nell’area europea settentrionale il legame tra l’abete e il solstizio d’inverno – il giorno più corto dell’anno che quest’anno cade il 21 dicembre – è radicato fin da tempi remoti. Alfredo Cattabiani, nel suo Florario (1996), ci informa che nei paesi nordici, nel Medioevo, in occasione delle feste solstiziali, si andava nei boschi a tagliare un abete che, in casa, veniva addobbato e intorno al quale si festeggiava. La scelta dell’abete rosso da parte della popolazione era dovuta, probabilmente, al fatto che l’albero raggiungeva dimensioni rispettabili, arrivando facilmente ai 30 metri.
Nei paesi latini l’albero di Natale (in realtà, del Solstizio) era stato introdotto nei territori occupati dagli invasori, popolazioni barbariche di origine germanica; la successiva evangelizzazione delle stesse aveva fatto “sparire” l’usanza. Sempre Cattabiani ci informa che «Solo nel 1840 la principessa Elena di Mecklemburg, che aveva sposato il duca di Orléans [figlio del re di Francia Luigi Filippo, NdA], introdusse l’albero di Natale alle Tuileries [giardino dell’omonimo palazzo reale, NdA], suscitando la sorpresa generale della Corte».
La tradizione dell’albero decorato si consolidò nel tempo, affiancandosi alla realizzazione della Natività (il presepe) e, in alcuni casi, sostituendolo. Oggi, l’albero di Natale è stato “cristianizzato”, assumendo il valore simbolico del Cristo come Albero della Vita (Ap 2,7); anche gli addobbi vengono interpretati secondo valori cristiani: le lucine (l’abete illuminato – un’usanza scandinava e germanica – era un Lichterbaum, albero della luce) rappresentano la Luce che Cristo dona all’Umanità; i «frutti dorati» appesi ai rami e i doni ai piedi dell’albero rappresentano i doni dell’amore di Cristo per tutti.
La seconda pianta di Natale è l’agrifoglio (Ilex aquifolium), un arbusto/albero sempreverde dioico (gli esemplari hanno cioè sessi separati: le piante hanno fiori femminili o fiori maschili). Ha foglie pungenti e bacche rosso vivo, appetite dagli uccelli come cibo tardo-autunnale e invernale (il colore è attraente ma i frutti sono tossici per l’uomo!). In latino era l’acrifolium, da acer (acuto) che ricordava la caratteristica foglia spinosa.
L’agrifoglio è una pianta relitta della cosiddetta laurisilva del Terziario, presente in quantità superiore in un periodo remoto (più di 2 milioni di anni fa) più caldo dell’attuale, un ambiente sub-tropicale con specie sempreverdi (laurifille), scomparso con le crisi glaciali del Quaternario. Ha un areale piuttosto vasto, dall’Europa settentrionale all’Africa occidentale; è presente in Asia e in America: il notissimo toponimo Hollywood è, in realtà, un fitonimo, significa “bosco di agrifogli” (holly in inglese). Nella nostra zona si rinviene, allo stato selvatico, nel sottobosco della faggeta (sui Monti Gemelli) e, sporadicamente, sul Monte dell’Ascensione.
Per gli antichi romani l’agrifoglio era una pianta portafortuna: portavano come talismani rami di agrifoglio durante i Saturnalia, i giorni di festa che precedevano il solstizio invernale, perché gli attribuivano la proprietà di tenere lontano le influenze negative: l’origine della credenza sta, probabilmente, nell’aspetto coriaceo delle foglie che hanno, come difesa, margini spinosi. Le bacche rosse che maturano tardi e rimangono sui rami nella brutta stagione, si interpretavano come simbolo di resilienza e rinascita del sole (al solstizio la durata dell’illuminazione è ai minimi dell’anno).
Un’altra pianta considerata quasi alla stessa stregua era il pungitopo (Ruscus aculeatus), un arbusto sempreverde che sui rigidi e pungenti cladòdi (l’osservatore li interpreta come foglie ma, dal punto di vista botanico, sono rami trasformati) hanno frutti rossi persistenti.
Nel Medioevo rami di pungitopo e di agrifoglio (o pungitopo maggiore) erano utilizzati per proteggere le derrate alimentari dal morso dei topi.
La terza pianta è la stella di Natale o Poinsettia (Euphorbia pulcherrima): è ormai entrata nella tradizione natalizia la consuetudine del “regalo” della stella di Natale, le cui brattee (vistose foglie modificate dette anche ipsofilli) disposte con una simmetria “stellata” diventano di colore rosso acceso proprio in quel periodo (il rosso è un energetico colore primario spesso associato alla buona sorte). Anche in questo caso, quindi, si tratta di una pianta portafortuna, come l’agrifoglio.
La pianta è di origine centro-americana. Le prime notizie sono del 1520, quando fu “scoperta” dai conquistadores di Cortés che notarono la pianta portata in dono dagli aztechi al loro sovrano Montezuma, a Tenochtitlán (nome precolombiano di Città del Messico); il nome attuale deriva da quello dell’ambasciatore statunitense in Messico, Joel Robert Poinsett che, colpito dalla sua bellezza appariscente, nel 1825 introdusse la pianta nel suo Paese, piantandola nel suo giardino.
Vediamo come tratta l’argomento Cattabiani: «Nel nostro secolo [il Novecento, NdA] infine è invalsa in America l’usanza di regalarla per Natale insieme con il vischio e l’agrifoglio. E come tutte le mode provenienti dalla capitale dell’Impero, la stella di Natale è giunta nell’ultimo decennio anche in Italia, e ora si coltiva intensivamente in Sicilia dove ha trovato un clima favorevole».
Quest’ultima citazione ci permette di introdurre l’ultima pianta natalizia, il vischio (Viscum album), pianta epifita (che vive, cioè, su un’altra pianta), in collegamento con la pianta-ospite tramite gli austori, estroflessioni simili a una radice.
I Celti credevano che il vischio fosse un dono degli dèi perché è una pianta senza radici che cresce come semiparassita sui rami di una specie arborea, la pianta-ospite. Erano convinti che il vischio “nascesse” dove era caduta la folgore, simbolo della discesa in Terra della divinità.
Conosciamo l’importanza attribuita alla pianta dai Druidi («i maghi» dei Celti) grazie agli scritti del naturalista Plinio che ci ha tramandato i complessi rituali per la sua raccolta (per es., il vischio andava raccolto rigorosamente con la mano destra, utilizzando un falcetto d’oro); usanze druidiche di celebrazione del vischio sono riportate in cronache francesi del sec. XV.
Il titolo dell’opera più famosa dell’antropologo inglese James Frazer (Il ramo d’oro, 1915) rende onore proprio al ramo di vischio che, raccolto, col tempo assume proprio la colorazione gialla dell’oro (in realtà, solo il vischio raccolto dai rami di quercia ha quella colorazione tendente al giallo; quello che si trova sui rami dei fruttiferi – come melo e pero – ha una colorazione delle ampolle tendente al bianco).
Anche in questo caso, si tratta di una pianta legata al solstizio d’inverno: nel vischio «covava la fiamma del fulmine» e se diventa d’oro «evidentemente è della stessa natura del sole». C’è la tradizione, per le feste natalizie, di appendere un rametto di vischio sull’uscio di casa come portafortuna («Il vischio, nei paesi nordici specialmente, è simbolo di buon augurio, tanto che serve a ornare le case nelle feste natalizie di capo d’anno, Treccani, 1937»).
Anche il vischio e la sua simbologia furono cooptati dalla religione cristiana che, ormai, aveva “conquistato” il vecchio e il nuovo continente; ce lo racconta ancora Cattabiani: «La natura solare del vischio, la sua nascita dal Cielo e il suo legame con i solstizi ispirarono ai cristiani il simbolo del Cristo, luce del mondo».
Quanto detto e la circostanza che questa pianta è associata alla fertilità e alla fortuna, ne ha fatto una pianta-simbolo di Natale e delle iniziative ad esso legate (addobbi, doni, bacio beneaugurante sotto un rametto, derivato da antichi riti delle già citate Saturnalia).
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati