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«Vicinanza e speranza, parole guida verso il Natale» Il messaggio dell’arcivescovo Pennacchio al Fermano

FERMANO - L'arcivescovo di Fermo a tutto tondo su fede, inclusione, giovani e Ospedale dei Sibillini. Sulla Sanità: «Importante dare attenzione allo spirito del paziente oltre che al corpo»

L’arcivescovo Rocco Pennacchio

di Silvia Ilari

Con l’avvicinarsi delle festività natalizie, abbiamo colto l’occasione per un’intervista con l’Arcivescovo della Diocesi di Fermo, Rocco Pennacchio. Ecco cosa ci ha detto.

 

Monsignore, siamo in tempo di avvento, il Natale si avvicina, ci dà un messaggio per i fedeli del Fermano?

«Il Signore è venuto una volta e l’avvento serve a prepararci per riviverla, ma serve anche per il ritorno del Signore, per attenderlo quando verrà la fine dei tempi. Il messaggio che voglio dare è dislocato su due versanti. Il primo è fare tesoro di questa venuta che significa prossimità, vicinanza. Nessuna religione monoteista crede in un Dio che si fa carne; quindi, per un cristiano avere il Signore vicino, che è venuto a Natale, deve poter significare qualcosa. Non si tratta solo di buoni sentimenti, ma del clima. Non dobbiamo scambiare il clima delle feste per il Natale vero e proprio. Si dice che di solito, colui che manca è il festeggiato. Ci commuoviamo se ci sono i presepi, i bambini, però il succo è come cambia la tua vita nel momento in cui sai che Gesù ti è vicino, si è incarnato, ti interpella giorno per giorno, non come un giudice ma come un compagno. Questo è il primo messaggio. Inoltre, l’Avvento ci ricorda che noi aspettiamo il ritorno del Signore, durante la fine dei tempi: qui il messaggio è ancora più impegnativo, cioè come vivi la tua vita sapendo che il Signore ritornerà? Non è la stessa cosa vivere pensando che tutto finisce con la morte e vivere sapendo di andare oltre essa: quindi occorre avere speranza, perché è quella virtù che ti fa andare oltre la morte».

Lei è originario di Matera, che Chiesa ha trovato qui? 

«Una Chiesa diversa da quella dove io sono cresciuto.  Molto più estesa, perché la diocesi di Matera è costituita da meno della metà degli abitanti di Fermo. Certamente è un territorio molto diverso, per esempio dalle nostre parti la religiosità popolare è molto più presente, più radicata con processioni continue e manifestazioni folkloristiche. Un’altra cosa diversa è che c’è una presenza più massiccia di uomini anche maturi. Da noi è come se ci fosse più imbarazzo, la religiosità è vissuta più nella sfera femminile. Poi, nel Fermano ho trovato una Chiesa strutturata, ben organizzata, con un clero molto preparato, grazie anche alla presenza dell’Istituto Teologico che ha formato generazioni di sacerdoti, insieme al seminario».

Per ciò che riguarda la quota giovani, cosa può fare la Chiesa, nello specifico quella locale, per avvicinarli? Si parla inoltre di chiese vuote, di giovani e non solo.

«Sì, la generazione assente non è solo la loro, ma anche quella dei quarantenni di oggi, quindi sono assenti genitori e figli. Probabilmente le ragioni sono sia culturali che sociologiche. Ci dobbiamo chiedere vent’anni fa che tipo di proposta abbiamo fatto, quelli che sono passati dalle nostre parrocchie.

Non possiamo risolvere o affrontare il tema dei giovani solamente dal punto di vista sintomatico, dobbiamo andare anche alla radice; quindi, capire perché non riusciamo ad aggregare, visto che comunque quasi tutti i bambini i passano dalle parrocchie. In quelle in cui ci sono gruppi di giovanissimi, dai 18 ai 25 anni, ancora sono presenti. Sono quelle parrocchie in cui sono presenti aggregazioni ecclesiali come l’Azione Cattolica, i focolarini, gli scout, i neocatecumeni, cioè laddove sono seguiti. Lo sono anche dopo la Cresima, quindi la formazione cristiana non serve solo per raggiungere un sacramento, ma è qualcosa che ti accompagna nella vita. C’è poi il grande tema dell’aggregare i giovani che sono più lontani. In quel caso, come comunità cristiana dovremmo interrogarci su come abitare e frequentare i loro ambienti e incontrare i loro bisogni.  È un lavoro complicato, ma abbiamo visto che, quando ai giovani non viene chiesto un impegno formativo esagerato e vengono semplicemente accolti e incontrati, rimangono».

Papa Francesco ha proposto una visione di una Chiesa più aperta. Cosa vorrebbe dire a chi magari non ha il coraggio di frequentare la chiesa perché si sente rifiutato/a?

«Francesco ci ha abituati a una visione diversa della Chiesa da tanti punti di vista. Il primo pensiero più importante è quello di guardare il mondo con occhi periferici. Non dal punto di vista di è tradizionalmente cristiano come potrebbe essere in Italia o in Europa, venendo lui dalla fine del mondo. Quando guardi le cose dal punto di vista della periferia, allora lo vedi da quello di tutti, non da quello dei garantiti, di chi ha già un pedigree già nella fede; quindi, il suo dire. “Todos, todos, todos” cioè: “Tutti, tutti, tutti” devono sentirsi accolti. Questa è stata una ventata d’aria fresca. Sono ormai tanti anni che si è sdoganata la possibilità di sentirsi accolti pur essendo in una condizione che moralmente e oggettivamente, ti pone fuori, diciamo così, dalla comunione. Pensiamo ai divorziati risposati, pensiamo alle persone conviventi, pensiamo a chi vive in una condizione morale contraria alla Chiesa. Il Papa non sta dicendo che adesso si può dare la comunione a tutti o che tutti possono fare qualsiasi cosa nella Chiesa. Il Papa sta parlando di sentirsi accolti, diverso è che da questa accoglienza nasca necessariamente la pretesa di un riconoscimento, di un ruolo. Questo diventa più complesso. Il Papa ci aiuta a valorizzare più che la condizione attuale delle persone, il loro percorso. Faccio un esempio, se due persone sono al momento conviventi e si trovano escluse da alcune situazioni, da alcuni ministeri, ma sono persone che sono in cammino verso il matrimonio, questo è più importante della condizione attuale. Questo è il Papa. Come Vescovo, penso anche che lui come Papa, abbia anche un’altra responsabilità, cioè, che accogliendo chi più ora si sente ai margini, non perda quelli che si sentono all’interno». 

Lei ha partecipato ieri all’inaugurazione dell’ospedale dei Sibillini, un luogo importante per la cura del corpo. La cura dello spirito lo è altrettanto?

«Noi siamo fatti di spirito, anima e corpo, questo lo dice non la Chiesa ma l’Antropologia e quindi è difficile pensare di curare uno di questi aspetti lasciando indifferente l’altro. 

Lo spirito è il nostro essere, se io moralmente o spiritualmente sono a terra perché il mio rapporto con il Signore non funziona, anche il mio fisico sta male e viceversa. 

Nel campo della medicina ci deve essere una spiritualità della cura, tenere conto che l’ammalato è una persona complessa, con sentimenti, come molti medici e infermieri già fanno del resto. Io mi auguro che questa nuova inaugurazione sia il primo tassello di uno stile che vada in questa direzione, accompagnato da progetti concreti come quello di far arrivare ulteriore personale sanitario, che spesso si rivela difficile da trovare in area montana. L’inaugurazione di ieri non deve restare solo quella di un edificio». 

 


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