di Giuseppe Fedeli *
“Non è l’io fondamentale / quel che cerca il poeta, / ma il tu essenziale” (A. Machado)
Ha più un senso il Natale? Da quando i feticci neopagani hanno dato l’accelerata a un consumismo sempre più demente, la corsa ai regali e alle tavole strabordanti ha fatto perdere ogni significato alla data più significativa del Cristianesimo: senso unico, che è metafora del suo capovolgimento. Troneggia in un angolo l’albero addobbato e, vicino, un presepe ammiccante di luci, ma orfano di ogni calore. Pensieri, questi, che, probabilmente, non suscitano più attenzione, tanto è inveterato il costume “impaillettato” dell’Occidente. Non sarò di certo io il primo a indignarmi, dopo aver dato un quadro impietoso di quella che è la festività dell’anno più inflazionata di non senso e ciarpame vario. In un’epoca come questa, segnata da una crisi profonda – non soltanto dal punto di vista socio/economico-, viene nondimeno a crearsi un paradosso.
La spinta al consumo non ha, infatti, il propellente necessario a soddisfare il desiderio di comprare: consumato in men che non si dica l’oggetto delle brame, comprare e comprare ancora, in una coazione a ripetere votata allo scacco. In parole povere, in molti, troppi portafogli non tintinnano più le monete, che servono a soddisfare le proiezioni di un sé fragile e disorientato. Ragionando di grana grossa, non c’è (più) trippa per gatti: se si eccettuano i soliti ricchi annoiati, stufi anche di svernare ai confini del pianeta. La ricetta per poter superare questa impasse? Non esiste se non nella Fede, anche in accezione laica. Riflessione tutt’altro che scontata: la fede è un gesto caritativo, “prossimo” e incline all’ascolto dell’altro, ad accoglierlo nelle sue imperfezioni. La fede è riservargli un posto a tavola, asciugare le lacrime al fratello, com-piangendo. Perché il vero significato del Natale è il rifiorire, ogni giorno dell’anno, in ogni istante, del cuore: le cui ragioni trovano un senso, solo in rapporto a un tu.
* giudice
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