Lo scontro Trump-Zelensky: echi di Yalta nella geopolitica contemporanea

Maurizio Petrocchi

di Maurizio Petrocchi *

L’incidente diplomatico che ha visto protagonisti, alla Casa Bianca, il Presidente Donald Trump e il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky, avvenuto lo scorso 28 febbraio, trascende la mera contingenza politica per collocarsi all’interno di complesse dinamiche strutturali del sistema internazionale contemporaneo. La vicenda esige un’interpretazione che ne colga la profondità storica e le implicazioni sistemiche, poiché il lascito di Yalta – paradigma di un ordine globale articolato attraverso una rigida compartimentazione delle sfere d’influenza geopolitiche -continua a permeare, seppur in forma metamorfizzata, le relazioni internazionali odierne.

Per una genealogia storiografica

Quando Franklin D. Roosevelt, Winston Churchill e Iosif Stalin si confrontarono nella penisola crimeana nel febbraio 1945, elaborarono non soltanto un assetto territoriale post-bellico, ma codificarono un preciso modello ermeneutico delle relazioni internazionali. Tale paradigma, fondato sulla dialettica tra potenze egemoni e sulla compartimentazione spaziale delle rispettive sfere d’influenza, ha plasmato durevolmente la grammatica geopolitica globale, sopravvivendo alle trasformazioni epocali degli ultimi decenni -dalla disgregazione del blocco sovietico all’emergere di nuove polarità decisionali nel sistema mondiale. L’approccio dell’amministrazione Trump nei confronti della crisi ucraina suggerisce, in effetti, una rivisitazione critica dei presupposti normativi che hanno orientato la politica estera americana nel periodo post-Guerra Fredda. L’abbandono della retorica liberale-interventista in favore di un pragmatismo realista costituisce una significativa cesura rispetto alle amministrazioni precedenti, richiamando, sotto diversi aspetti, quella logica di spartizione del potere globale che ebbe la sua consacrazione formale negli accordi di Yalta. È significativo, in questa prospettiva, che l’incontro alla Casa Bianca – originariamente concepito per delineare intese sulle risorse minerarie strategiche e possibili percorsi di de-escalation del conflitto- sia degenerato in un confronto dialettico dai toni marcatamente antagonistici. Tale esito denota una frizione profonda tra diversi paradigmi interpretativi della sovranità nazionale e della legittimità dell’intervento esterno nelle zone di conflitto.

Rottura diplomatica e ripercussioni sistemiche
L’interruzione brusca del vertice bilaterale, avvenuta senza la codificazione formale di alcun accordo e senza la rituale conferenza stampa congiunta, rappresenta una frattura simbolica dalle molteplici implicazioni. L’immediata cancellazione delle apparizioni pubbliche programmate dal Presidente Zelensky a Washington amplifica ulteriormente la portata di questo disallineamento diplomatico, suggerendo una discontinuità nei rapporti bilaterali che trascende la mera dimensione procedurale. Sul versante europeo, la reazione si è articolata secondo linee interpretative complesse e talvolta divergenti, ma numerose cancellerie hanno nondimeno ribadito un supporto sostanziale a Kiev. Questa postura suggerisce l’emergere di un potenziale divario nelle strategie transatlantiche, con l’Europa che potrebbe accelerare quel processo di emancipazione strategica già teorizzato da Macron attraverso il concetto di “autonomia strategica europea”. Come evidenziato da Josef Joffe nel suo The Myth of America’s Decline, in un’epoca di apparente contrazione dell’impegno americano nella gestione di determinati dossier internazionali, l’Unione Europea potrebbe trovare incentivi strutturali per consolidare i propri meccanismi di sicurezza collettiva e sperimentare modalità più incisive di integrazione militare.

Il superamento delle dicotomie

Sarebbe tuttavia riduttivo ricondurre la complessità di questo confronto a una logica binaria incentrata esclusivamente sull’antagonismo Trump-Zelensky. Il dissenso manifesto è piuttosto l’epifenomeno di tensioni strutturali che attraversano l’intero sistema internazionale: la contraddizione tra una concezione westfaliana della sovranità e le esigenze di gestione collettiva delle crisi; la competizione tra diverse configurazioni normative della sicurezza regionale; e la difficoltà di elaborare strategie condivise in un panorama internazionale sempre più frammentato e policentrico. L’interpretazione teorica più adeguata di questo scenario richiede l’integrazione di molteplici prospettive analitiche. Se il realismo strutturale di Kenneth Waltz ci aiuta a comprendere le dinamiche competitive tra potenze in un sistema anarchico, la scuola costruttivista di Alexander Wendt offre strumenti concettuali per analizzare come le identità e le narrative geopolitiche plasmino le percezioni di minaccia e le risposte strategiche. Parallelamente, l’approccio della scuola inglese di Hedley Bull permette di inquadrare tali tensioni all’interno di un più ampio dibattito sulla natura della società internazionale e sulle norme che ne regolano il funzionamento. La polarizzazione interna degli Stati Uniti, lungi dall’essere un mero epifenomeno delle dinamiche di politica interna, costituisce una variabile cruciale che condiziona la proiezione esterna di Washington. Tale frammentazione riflette una più profonda crisi epistemologica circa la definizione dell’interesse nazionale americano e il ruolo che gli Stati Uniti dovrebbero assumere nell’architettura globale post-Guerra Fredda, con inevitabili ripercussioni sulla coerenza e continuità delle politiche estere.

Prospettive analitiche e implicazioni paradigmatiche

In una prospettiva di lungo periodo, gli echi di Yalta ci ricordano che la storia rappresenta non tanto un repertorio di precedenti conclusi, quanto un processo ermeneutico in costante rielaborazione. Se nel 1945 la questione centrale concerneva la codificazione esplicita di sfere d’influenza delimitate, l’attuale configurazione geopolitica presenta una morfologia più fluida ma non meno conflittuale. Il paradigma multipolare emergente, teorizzato da Giovanni Arrighi e Immanuel Wallerstein, richiede un’analisi sfumata delle relazioni di potere contemporanee, capace di cogliere tanto le continuità quanto le discontinuità rispetto al modello bipolare. Henry Kissinger, nel suo World Order, ha lucidamente evidenziato come l’emergere di molteplici centri decisionali abbia complicato l’architettura del sistema internazionale, con gli Stati Uniti chiamati a confrontarsi con attori emergenti determinati a plasmare configurazioni regionali conformi ai propri interessi strategici. In questo contesto, la Repubblica Popolare Cinese rappresenta non soltanto una potenza economica in espansione, ma un polo normativo alternativo che propone una visione distintiva delle relazioni internazionali. Analogamente, la Federazione Russa persegue un consolidamento della propria influenza nell’Europa orientale e in Asia centrale. A queste dinamiche si sovrappongono le ambizioni di potenze regionali emergenti – l’India, con il suo crescente peso demografico ed economico analizzato da Parag Khanna; la Turchia, che sotto la direzione di Erdoğan aspira a una proiezione neo-ottomana nel Mediterraneo e in Medio Oriente; e i Paesi del Golfo, protagonisti di un’assertiva politica di diversificazione economica e militare.

Tale architettura policentrica non solo moltiplica gli attori e gli interessi in competizione, ma impone una riconsiderazione dei fondamenti teorici della governance globale. Le istituzioni multilaterali create nell’immediato dopoguerra – dalle Nazioni Unite al Fondo Monetario Internazionale – si trovano confrontate con una crisi di legittimità e rappresentatività che ne limita l’efficacia operativa. Come sottolineato da Stephen Krasner, la dialettica tra sovranità formale e interferenza esterna costituisce uno dei nodi irrisolti dell’attuale sistema internazionale, particolarmente evidente nelle zone di conflitto come l’Ucraina. Il confronto Trump-Zelensky, letto attraverso queste lenti interpretative, acquista una valenza paradigmatica che trascende la contingenza diplomatica. Esso rinvia a interrogativi fondamentali sulla futura configurazione dell’ordine internazionale, sui limiti della potenza egemonica americana e sull’ineliminabile tensione tra autodeterminazione nazionale e gestione collettiva delle crisi. Riconoscere la persistenza dell’eredità concettuale di Yalta, senza tuttavia ridursi a una sua acritica riproposizione, costituisce la sfida ermeneutica più urgente per chiunque intenda comprendere e orientare le dinamiche geopolitiche contemporanee.


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