Riceviamo dal sig. Francesco Colibazzi e pubblichiamo:
«Tra inclusività e cancellazione della memoria: polemiche sulla riqualificazione dell’area verde attigua ai giardini pubblici. La tanto sbandierata “riqualificazione” dell’area verde compresa tra via Verdi e via Roma sta sollevando un polverone, e non solo di cemento. Dopo due interventi comunali, presentati come opere di valorizzazione e inclusione, una parte sempre più ampia della cittadinanza si interroga sulla reale utilità e, soprattutto, sull’impatto ambientale, culturale ed economico di quanto è stato fatto.
Il primo intervento, inserito nel progetto “Riqualificazione e valorizzazione infrastrutture urbane esistenti del centro storico con miglioramento accessibilità ed inclusività fisica e sensoriale”, ha portato alla realizzazione di una rampa per facilitare il passaggio tra via Verdi e via Roma. Un’opera costata all’incirca 100.000 euro, finanziata in parte con fondi del Gal Fermano e, in parte, con risorse provenienti dalle casse comunali per completare l’intervento.
Un investimento importante, che ha fatto storcere il naso a molti. Via Roma, infatti, è da sempre facilmente raggiungibile sia a piedi che in auto, e l’intervento è avvertito da parte della cittadinanza come una spesa eccessiva per un’esigenza che, di fatto, non esisteva.
Ma la vera ferita per la comunità è arrivata con il secondo intervento. Qui, a farne le spese è stata la storica fontana, un piccolo capolavoro artigianale, simbolo dei giardini pubblici e testimonianza concreta del legame tra la cittadinanza e il proprio territorio.
La fontana era stata realizzata da maestranze locali in cemento bianco, adornata con pietre calcaree provenienti dai Monti Sibillini, raccolte dagli stessi cittadini. Lo zampillo continuo della fontana alimentava la crescita dell’edera acquatica appositamente piantumata tra le pietre. L’intera area si armonizzava con cordoli dello stesso materiale come d’uso nella seconda metà del ‘900. Un luogo pensato non solo come abbellimento urbano, ma come spazio di socialità, tanto che la fontana era stata progettata per potersi sedere.
Oggi, al suo posto, una “cementificazione” dai toni freddi, realizzata con materiali che nulla hanno a che fare con la tradizione locale. L’area verde è stata sacrificata in nome di una “modernità” sterile e priva di identità.
Ci parlano di inclusività e riqualificazione, ma questa è solo cancellazione di ciò che eravamo – afferma un anziano residente – Hanno speso una fortuna per costruire qualcosa che non serve e che ci ha tolto un pezzo del nostro passato” A rincarare la dose è un altro cittadino, visibilmente contrariato: “L’assessore al centro storico dovrebbe smetterla di considerare lo spazio pubblico come lo spazio di casa propria”. Una frase che fotografa bene il sentimento diffuso: quello di una gestione percepita (…) distante dalle reali esigenze e sensibilità del paese.
È necessario dire che il Comune aveva ottenuto il parere favorevole della Soprintendenza per la rimozione della fontana, ma regolamenti ed autorizzazioni non sono in grado di tutelare sentimenti radicati in un luogo. L’angolo in cui sorgeva la fontana era l’ultimo frammento rimasto intatto del giardino pubblico originale risalente ai primi del ‘900. La sua cancellazione rappresenta non solo una perdita materiale, ma anche un vuoto emotivo e simbolico per la comunità. In casi come questi, ciò che serve è una sensibilità che solo chi vive quotidianamente quei luoghi può sviluppare. Perché un giardino non è solo uno spazio verde: è memoria, appartenenza ed identità condivisa.
In sostituzione della storica fontana, l’amministrazione ha previsto l’installazione di una nuova: l’ennesimo pezzo prefabbricato che si impone ad un luogo che non si conosce e non si rispetta.
Questa vicenda apre un interrogativo più ampio: quanto valgono i cittadini nelle scelte che riguardano il paese? Mentre l’amministrazione tace o si trincera dietro frasi di rito, il malcontento cresce. E con esso, la sensazione che, ancora una volta, si sia perso qualcosa che non tornerà: un pezzo di memoria, distrutto in nome del “nuovo” che ha ben poco da dire».
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